Il benefattore che fa acqua da tutte le parti del mondo
Non ha mai rifiutato elettropompe e generatori di corrente a chi muore di sete: 2 milioni di poveri in 47 Paesi bevono grazie a lui
di Stefano Lorenzetto - 13 novembre 2011, 09:55
Mi mostra la lettera che padre Liberatus Mwenda gli ha scritto dalla parrocchia di Nyakipambo, provincia di Iringa, Tanzania: «L’acqua che beviamo è sporca, ci ammaliamo spesso. Vogliamo vivere». La rimette nella busta: «Che cosa gli rispondevo? Portate pazienza e continuate a bere quel liquido puzzolente color marrone?». Silvano Pedrollo ha risposto a modo suo: elettropompa, pozzo e generatore. «Hanno festeggiato per un mese: non avevano mai visto l’acqua corrente e la luce elettrica.
Adesso ci sono indigeni che fanno decine di chilometri a piedi per venire ad ammirare il prodigio».
Di lettere così il proprietario del gruppo Pedrollo, leader mondiale delle pompe idrauliche per uso domestico con sede a San Bonifacio (Verona), 7 aziende, 7 consociate estere, 600 dipendenti, 200 milioni di fatturato annuo, 6 lauree honoris causa (due in Albania, le altre in Russia, Georgia, Ucraina e Macedonia), ne riceve una, tre, dieci a settimana e a tutte risponde nello stesso modo: «Sì, vi aiuto». Nemmeno una volta ha risposto: «No, non posso». Oppure: «Vedremo». Dall’Angola all’Ecuador, dall’India al Brasile, dal Kosovo al Nicaragua, dalla Lituania al Burundi, oltre 2 milioni di persone di 47 Paesi del mondo - ho dovuto contarli io, perché lui non l’aveva mai fatto - bevono, ma sarebbe più esatto dire vivono, grazie ai 1.200 pozzi che sono stati scavati per merito suo.
Pedrollo, che in 37 anni d’attività non ha mai chiuso un bilancio in rosso, mai licenziato un dipendente, mai chiesto un’ora di cassa integrazione, sa bene che cosa significhi aver sete. «Nel 1974 mi presentai alla filiale della Banca Cattolica del mio paese a chiedere un mutuo per aprire la mia prima azienda. “Che garanzie può offrire?”, mi domandò il direttore. Solo i miei 29 anni e la voglia di fare, gli risposi. “Non bastano”. Qualche giorno dopo lessi sul giornale che negli Emirati arabi uniti l’acqua costava più della benzina. Salii su un aereo. Mi feci a piedi tutto il Dubai col prototipo di una delle mie elettropompe sulle spalle, 48 gradi all’ombra, un’arsura terrificante. Negozietto per negozietto. Mi chiedevano: “Marelli?”. Era l’unico marchio italiano che conoscevano. No, Pedrollo, replicavo io. L’assonanza fu la mia fortuna. Tornai a casa con una valigiata di lettere di credito e l’anno dopo mi feci tutti i Paesi del Golfo, dall’Arabia Saudita all’Iran».
Oggi vende i suoi prodotti in 160 dei 202 Stati del mondo, «anche in Abkhazia e in Transnistria, lei sa dove si trova la Transnistria?», a dire il vero no, «è una repubblica separata della Moldavia». Elettropompe (ne produce 2 milioni l’anno) capaci di estrarre fino a 10.000 litri di acqua al minuto. Alternatori in grado di far marciare una fabbrica o di dare elettricità a 2.000 case, «però funzionano col motore a scoppio e siccome il gasolio nel Terzo mondo spesso è più introvabile e più caro dell’acqua abbiamo appena messo a punto un generatore di corrente a pannelli solari». È diventata l’azienda più copiata del pianeta: «Perdo dal 30 al 40 per cento del mercato per colpa della contraffazione. I cinesi hanno creato centinaia di imitazioni: Pedrolloo, Pedrolo, Pierollo, Petrollo, Pedroso, Pedrolla, Petrolla, Peddrola, Pedrolle, Pedro, Pero, solo per citare le più comuni. Ogni innovazione me la copiano nel giro di tre mesi e io devo ricominciare daccapo. Ci salva l’estetica. Un prodotto italiano dev’essere innanzitutto bello. È la lezione che imparai a una fiera nel 1974. Avevamo uno stand bruttarello. Nel 1975 lo feci ridisegnare a Silvano Bellintani, un architetto che ha esposto al Moma di New York e che a 86 anni gira ancora per l’azienda. I clienti mi dicevano: “Si vede che avete fatto un salto di qualità”. Eppure i prodotti erano gli stessi dell’anno precedente».
Ma è per il suo prodotto migliore, la beneficenza, che l’industriale veronese s’è fatto conoscere nei cinque continenti, al punto che a Chittagong, capitale economica del Bangladesh, gli hanno intitolato una Pedrollo Plaza. «Però fuori dal country club dov’era stato organizzato il banchetto in mio onore un vecchio affamato grattava con le unghie i vetri dell’auto per implorare l’elemosina e io, una volta a tavola, non me la sono sentita di mangiare».
La sensibilità verso i diseredati l’ha imparata in famiglia. Suo padre Zimerio, un modesto meccanico ed elettrauto, aveva uno zio, morto in odore di santità, che si chiamava don Luigi Pedrollo. Il quale era stato il braccio destro e poi il successore di don Giovanni Calabria alla guida dei Poveri Servi della Divina Provvidenza e come il suo maestro, l’unico santo della Chiesa cattolica sottoposto a quattro sedute di elettroshock, era un prete carismatico che aveva dedicato la vita agli ultimi. «Andavo a trovarlo tutte le domeniche. C’erano giorni in cui doveva dire a don Calabria: “Padre, non abbiamo niente da mettere in pentola per i nostri 200 orfani”, e il futuro santo gli rispondeva: “Allora andiamo in chiesa a pregare”, e puntualmente la provvidenza mandava prima di mezzogiorno o un camioncino di cibo o un benefattore con un assegno. Mia sorella Loretta stava morendo di difterite. Corsi da don Calabria, che mi disse solo: “Torna a casa, è tutto a posto”. Loretta è ancora viva e i medici non hanno mai capito come abbia fatto a guarire. Solo oggi riesco a spiegarmi la frase che don Luigi pronunciò quando, da giovane squattrinato, lo informai che avevo in animo di fondare una fabbrica di elettropompe: “Vedrai quanto bene farai con quegli attrezzi lì”».
Che quota di bilancio destina in beneficenza?
«Mah! Di sicuro il 2 per cento dell’imponibile, che gode dell’esenzione fiscale. E poi il doppio o il triplo, anche se ci pago sopra le tasse. Più il mio stipendio. Sono occasioni che non mi faccio scappare. Nella vita ho avuto troppa fortuna, e vedo le miserie del mondo. L’azienda appartiene a chi ci lavora. Non ho mai ripartito gli utili: li ho sempre reinvestiti in sviluppo e innovazione. Alla fine del mese mi consegnano la busta paga, come se fossi un dipendente. Non fumo, non bevo, non ho né amanti né barche da mantenere e più di una settimana di ferie non riesco a farla perché già al secondo giorno mi gira la testa».
Ma davvero accontenta tutti?
«Per l’acqua sì, immediatamente. Idem per i container da 24 tonnellate di cibo, che spediamo regolarmente. Altri interventi più impegnativi, come la costruzione di scuole, ospedali, istituti professionali e orfanotrofi, devo un po’ dilazionarli. Ma non respingo mai nessuno. Un giorno all’aeroporto di Fortaleza, in Brasile, conobbi un ginecologo camilliano, padre Adolfo Serripierro, il quale mi disse: “Pensi che le bimbe costrette a vendersi sono così affamate da chiedermi di pregare Dio affinché gli mandi tanti clienti”. Una di loro aveva 11 anni. Era stata abusata dal patrigno e aveva partorito un figlio: laggiù nessuna prostituta abortisce, tanto è intenso il suo desiderio di dare l’amore che non ha ricevuto in famiglia. Poi le avevano amputato una gamba in gangrena ed era morta. Avvertii un moto di ribellione interiore. È nato così il centro d’accoglienza con dispensario per le 600 ragazze che padre Serripierro ha tolto dalla strada».
L’acqua si trova sempre?
«Sì, anche nel deserto. Dipende dalla profondità dello scavo. Le canossiane di Luanda prima dovevano pagare in dollari le autobotti per poter dare un bicchiere d’acqua al giorno, non di più, a ciascun bambino. Oggi ne hanno gratis persino per la doccia. Il presidente della Banca mondiale commentò: “Abbiamo stanziato miliardi di dollari per dissetare l’Angola, senza riuscirci, e guardate adesso che cosa sanno fare gli italiani con i soldi di una pizza”».
E se a chiederle la pompa idraulica è una comunità musulmana, che fa?
«La mando lo stesso, ci mancherebbe altro. Per me i bambini sono bambini. È già avvenuto, sia nei Paesi arabi che nel Bangladesh, dove con le nuove condotte idriche siamo riusciti a passare da due a tre raccolti di riso l’anno e finanziamo gli interventi chirurgici contro il labbro leporino».
Come mai in tutti i suoi progetti umanitari non manca mai l’Albania?
«Tutto nacque alla caduta del regime comunista di Enver Hoxha. Un amico del Rotary mi disse: “Lo sai che in Albania non hanno neppure la carta per stampare i giornali democratici?”. Mandai giù un bilico di bobine. Diventai amico dell’attuale premier Sali Berisha. Ora in Albania costruiamo chiese e pubblichiamo gratis i testi per le facoltà universitarie di ingegneria e agricoltura».
Ai suoi corregionali gli albanesi non sono simpatici. Li considerano rapinatori di ville e sfruttatori di prostitute.
«Certo, se li lasci per strada... Alle mie dipendenze ne ho 10, fra impiegati e operai, e non mi hanno mai creato problemi. Se faticano a trovare casa, gli firmo io la fidejussione. Un nostro ingegnere ha sposato un’albanese che lavora qui».
Il mondialismo in azienda.
«La prima volta che andai nell’Unione Sovietica, portai con me il dottor Roberto Reggiani. Parla così bene il russo che fece da interprete a Leonid Breznev. Reggiani trattava col potenziale cliente in inglese, per agevolarmi, ma io non avvertivo alcun calore umano in quella conversazione. A un certo punto passò al russo. Non le dico l’entusiasmo del nostro interlocutore: “Ma lei conosce la mia lingua?”. Finimmo a concludere affari fra canti e vodka nella sua dacia a 20 chilometri da Mosca».
Questo spiega perché nel suo ufficio esteri vi siano funzionari provenienti da Libia, Algeria, Messico, India, Argentina, Albania, Moldavia, Georgia...
«Il primo, Moustapha Tounkara, un senegalese, lo assunsi dopo averlo visto in televisione, al Maurizio Costanzo show. Laureato in economia commercio a Verona, era costretto a fare il vu cumprà».
Nel suo curriculum ho contato circa 40 fra incarichi diplomatici, premi, commende, cavalierati, inclusa la Gran Croce dell’Ordine di San Gregorio Magno, conferitale da Benedetto XVI.
«Se mi dicono: “Venga a prendere una medaglia”...».
Non sa dir di no.
«Non bisogna mai dir di no. Fare o non fare il bene non è una cosa che possiamo decidere noi: si fa e basta».
Però il Vangelo prescrive: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra».
«Tutta colpa del cardinale Ersilio Tonini. “Quello che fai, si deve sapere”, mi ha ordinato. Aveva ragione, non c’è altro modo per arrivare a chi ha bisogno. Ho la fortuna di ricevere tante richieste e di poterle soddisfare».
Voleva persino regalare al suo paese una statua di Alberto da Giussano.
«Le cose non stanno così. Il Comune mi ha permesso di costruire una passerella aerea che collega due capannoni. In cambio mi sono impegnato a finanziare due opere di arredo urbano. Dal municipio mi hanno comunicato che la scelta era caduta su due sculture: una dedicata alla Madonna e una a Papa Wojtyla. Ho dato l’assenso. Poi, a mia insaputa, la delibera è stata modificata su pressione dei leghisti ed è saltato fuori il monumento al difensore del Carroccio. È evidente che una convenzione del genere non l’avrei mai firmata: un’azienda deve rimanere estranea alla politica. Ora il Comune opterà per altre opere di pubblica utilità».
Andrebbe a scavare pozzi in Cina?
«Ci sto provando su richiesta dei salesiani».
I cinesi non sono suoi acerrimi nemici?
«Una spina nel fianco. Vendono le imitazioni dei nostri prodotti a un prezzo che a noi non consentirebbe neppure l’acquisto della materia prima per farli. Il sindaco di Qingdao, un’ex colonia tedesca che fa quasi 4 milioni di abitanti, mi ha proposto: “Se porta la produzione qui da noi, blocchiamo le contraffazioni”. Allora è un ricatto, gli ho risposto. Ha ammesso che oltre 100 milioni di suoi connazionali sono dediti all’industria del falso. Ho provato a far causa al governo di Pechino. A un certo punto l’avvocato di Shanghai che mi assisteva in giudizio mi ha detto: “È sicuro di poter vincere contro lo Stato cinese con giudici cinesi pagati dallo Stato cinese?”. Ho lasciato perdere».
Com’è possibile che un imprenditore generoso abbia fatto fortuna? Non serve il pelo sullo stomaco negli affari?
«No, anzi c’è bisogno di tornare all’etica, negli affari. Se agisci correttamente, il mercato ti ripaga con gli interessi».
Secondo lei, l’acqua è destinata a finire come il petrolio?
«Sì, è in pericolo. Già ora il 70 per cento dell’acqua potabile è localizzata nel 30 per cento del mondo civile. In Germania e in Gran Bretagna sono costretti a bersi l’acqua degli scarichi filtrata tre volte. In Italia un tempo bastava scavare nel sottosuolo per 7 metri. Adesso la seconda falda, a 40 metri, spesso è inquinata e bisogna scendere a 80-100 metri per trovare qualcosa di bevibile».
L’uomo s’è dimenticato d’essere fatto più d’acqua che di terra.
«Sotto il cielo nulla è più importante dell’acqua. Non dimenticherò mai che cosa mi ha detto un capotribù novantenne di un villaggio vicino a Dekamere, in Eritrea, dove abbiamo scavato un pozzo per 1.000 abitanti: “Ora posso anche morire. Ho visto tutto”».