"In Germania la politica sta fuori dalle fabbriche"
Francesco Garippo, sindacalista della Ig-Metall alla Volkswagen, spiega: "Il nostro motto è: non si ammazza la mucca che vuoi mungere"
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olfsburg, Germania, quartier generale della Volkswagen. Regno della pace sindacale. Qui se chiedi a un rappresentante dei 55mila operai dell’ultimo sciopero, ti senti rispondere, «io lavoro in questa fabbrica da 35 anni e non me ne ricordo. Ci sono state forme di protesta ma mai scioperi organizzati». Allora lo interroghi sui motivi, e lui non fa una grinza: «Sarà perché il 96% degli addetti sono iscritti a un
unico sindacato, l’Ig-Metall (rappresenta i metalmeccanici). Sarà perché a noi le opinioni politiche e religiose non interessano. Noi guardiamo ai posti di lavoro, al salario e agli orari. Più produce l’azienda e più aumentano le buste paga, il nostro motto è “non si ammazza la mucca che si vuole mungere”». Quindi insisti, provi a “sfruculiarlo” sulle crisi che ciclicamente si attraversano un’azienda, e lui ricorda: «Sacrifici? Ne abbiamo fatti. Di recente, ma anche in passato. Nel ’94 abbiamo ridotto l’orario di lavoro da 36 a 28,8, da cinque a quattro giorni settimanali. Gli stipendi sono calati del 15-16% ma abbiamo salvato 30mila posti. Insomma: siamo arrivati a un accordo senza fare un giorno di sciopero».
A parlare è
Francesco Garippo, sindacalista della Ig Metall, uno dei 65 membri nel consiglio di fabbrica dell’azienda. Già, il consiglio di fabbrica. Per capire fino in fondo le differenze tra il sistema delle relazioni industriali tra Italia e Germania è necessario iniziare da qui. Dal modello di cogestione tedesco (Mitbestimmung), dove i lavoratori hanno un potere significativo nelle scelte dell’azienda.
Da una parte ci sono i 65 rappresentanti del consiglio di fabbrica che vigilano sulla reale applicazione dei diritti sanciti dal contratto: orari, permessi, pause, straordinario, ferie, i tempi della catena di montaggio, licenziamenti. Dall’altra il consiglio di vigilanza (o sorveglianza che dir si voglia), l’organismo di controllo sui manager che co-decide sulle questioni essenziali: chiusura di un impianto, scelte sull’amministratore delegato ecc. È composto da dieci rappresentanti dei lavoratori, di cui tre sindacalisti, e da dieci “uomini” degli azionisti. Insomma qui
i lavoratori hanno voce in capitolo. Sono coinvolti. Hanno la possibilità di partecipare ai risultati dell’azienda (nella misura del 10% dell’utile operativo prodotto qui in Germania). Mirano all’ingresso nel capitale di Volkswagen (si parla del 3%). E pochi giorni fa hanno siglato un nuovo contratto di lavoro che prevede da maggio un aumento dei salari del 3,2% e un pagamento straordinario da 500 a 1000 euro (vale solo per 100mila dipendenti Volkswagen degli impianti tedeschi). Vivono, cioè, in un altro mondo rispetto all’Italia. E va da sé che nessuno si ricordi di uno sciopero.
«È una questione culturale – continua Garippo – ma anche di regole. Rispetto all’Italia, da noi si sciopera solo nella fase delle trattative per chiudere i contratti. Mentre nell’applicazione degli stessi, il consiglio di fabbrica ha ampi margini di azione per evitare proteste eclatanti e nei casi estremi c’è una sorta di arbitro, accettato dalle parti, che dirime le controversie».
Questo il meccanismo: «Se non si arriva a un accordo, se le trattative non vanno avanti, il sindacato chiede ai suoi iscritti con un referendum, trascorsi almeno “52 giorni di pace” (partono dal momento della disdetta del contratto precedente), se c’è la volontà di fare uno sciopero. Serve il sì del 75% degli iscritti». E poi c’è un indennizzo. «Abbiamo un rimborso per lo sciopero che varia dal periodo di iscrizione». Esempi? «Sono calcoli un po’ complessi, ma per dare un’idea: se sciopero per una settimana, sono iscritto da cinque anni e pago una quota di 40 euro al mese, la mia indennità sarà di 40 euro per 14». Morale della favola: in Germania non fanno scioperi, anche se sarebbero pagati. E hanno dei salari più alti di circa il 40% rispetto a quelli di un metalmeccanico di casa nostra. «Qui – conclude Garippo – c’è una
diversa idea del rapporto con l’azienda. La produttività della fabbrica è un obiettivo comune, perché sappiamo che si trasformerà nel breve periodo in un incremento degli stipendi. Il nostro sindacato è per tradizione unito, mentre in Italia, soprattutto in questo momento, non vedo una grande coesione. Infine ricordo una mia abitudine. Quando io conduco una trattativa non guardo se il mio interlocutore è democristiano o comunista. Per me l’unica cosa che conta è portare a casa il miglior risultato possibile per gli interessi degli operai che rappresento».
di Tobia de Stefano 04/03/2011
Angeletti: "Gli operai tedeschi? Incassano di più"
Il segretario Uil: "Gli accordi sono legati alla produttività. Scioperi solo ad ampia maggioranza" / DE STEFANO
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a lo sapevate che gli scioperi vengono pagati dai sindacati? E che non possono essere proclamati se non c’è il via libera del 75% degli iscritti alla rappresentanza? E poi, che gli stessi sindacalisti hanno diritto ad accedere alle informazioni sensibili delle aziende e che i più felici per gli incrementi di produttività delle aziende sono proprio loro, i dipendenti? No, non preoccupatevi, non siete degli ignoranti. È che stiamo semplicemente parlando di un altro Paese. Tutto questo, infatti, succede in Germania e non in Italia. Per la precisione: sono queste alcune delle caratteristiche che distinguono il modello di relazioni industriali tedesco rispetto a quello del Belpaese. Ne parla con Libero Luigi Angeletti. Negli ultimi mesi il segretario generale della Uil ha sottolineato a più riprese queste differenze. L’ha fatto nei giorni più caldi della trattativa per i nuovi accordi sugli stabilimenti Fiat di Pomigliano e Mirafiori. Quando in tanti vaticinavano che se fossero passati i referendum i lavoratori italiani sarebbero stati meno tutelati dei colleghi tedeschi e francesi. E lui a ribattere che semmai era vero il contrario. Che il vero problema erano i salari, da noi inferiori (se si considera quello base di un metalmeccanico) del 40% rispetto a quelli dei vari “lander”.
Segretario perché i nostri operai guadagnano quasi la metà dei colleghi teutonici? «Non c’è una sola risposta a questa domanda. Diciamo che l’impianto delle relazioni industriali in Germania si basa su una logica costruttiva: garantire un sistema che faccia accordi. C’è un unico sindacato e a questo sindacato vengono assicurati strumenti finalizzati a siglare intese. In Italia, ma anche in Spagna e Francia, ci sono più confederazioni che rispondono troppo spesso a una logica di rappresentanza, se vogliamo ideologica e politica».
Tutto si spiega con l’unicità sindacale? «No, c’è tutto un sistema di regole che favoriscono gli accordi e l’assenza di conflittualità».
Per esempio? «L’elenco è lungo. Innanzitutto la co-decisione. Nei consigli di sorveglianza delle grandi aziende (c’è una dimensione minima prevista per legge) i rappresentanti sindacali hanno la possibilità di accedere a informazioni normalmente riservate al top manager. Tutto questo, ovviamente, comporta una serie di obblighi di riservatezza, ma la logica di fondo è favorire la governabilità dell’impresa».
E da noi non sarebbe possibile? «La Confindustria non è d’accordo. E a questo proposito le racconto cosa è successo qualche anno fa in Germania...».
Prego… «Qualche anno fa, un mio collega tedesco, segretario dell’IG Metall (i metalmeccanici tedeschi) fu accusato di insider trading: avrebbe comprato delle azioni di una società quotata sulla quale aveva notizie riservate grazie al ruolo svolto nel consiglio di sorveglianza».
Come andò a finire? «Ha dato le dimissioni. Basta. Si immagina cosa sarebbe successo in Italia… bisogna essere realistici, ma penso che l’esperimento potrebbe riuscire anche in alcune imprese di casa nostra».
Vada per la co-decisione, ma cos’altro potremmo mutuare? «Guardi, non si tratta di una singola norma, ma di un sistema completamente diverso. Lì il sindacato è diviso per “lander”, poi come da noi in categorie. Si presentano delle piattaforme per rinnovare i contratti e iniziano i negoziati. Se questi sono particolarmente lunghi e difficili è previsto l’intervento di arbitro, di un mediatore, accettato dalle parti, che trova un punto di equilibrio. In concreto è un’ipotesi assai rara, ma è importante dal punto di vista concettuale. L’obiettivo principale, mi scusi se mi ripeto, è raggiungere un accordo. Ma non c’è solo questo aspetto».
Continui, prego… «Alla fine, il sindacato firma un contratto per un “lander”, che per convenzione, non per legge, si estende poi a tutto il resto del Paese. Non è automatico, ripeto, ma non è mai successo il contrario. Da qui deriva anche la scarsa conflittualità».
Ecco appunto, in Germania non scioperano praticamente mai... «Infatti. In Germania gli scioperi sono pagati dai sindacati che hanno delle casse ad hoc. Ma non solo. La confederazione può indire uno sciopero solo con l’assenso dell’75% degli iscritti che si esprimono attraverso un referendum. Ah, si ricordi, lo sciopero non riguarda mai tutte le fabbriche di un’azienda, ma solo quelle più strategiche. Sinceramente io l’ultimo non me lo ricordo. È un evento».
Sarà pure una questione di regole e di sistema, ma se gli operai tedeschi non scioperano evidentemente se la passano meglio di quelli italiani... «E qui veniamo al punto. Storicamente i sindacati tedeschi hanno avuto grande attenzione nel legare l’aumento della produttività agli aumenti di salario. E d’altro canto le imprese hanno visto in questo modello una base del loro successo. Non è un caso se un metalmeccanico tedesco guadagna almeno il 40% in più di quello italiano. E i contributi previdenziali, per esempio, sono quasi al livello dei nostri. Insomma, tutto o quasi dipende dalla diversa produttività».
E noi dormiamo... «Non direi. Secondo me ci stiamo avvicinando a quel modello. Molti iniziano a capire che se si vogliono aumentare i salari non abbiamo alternative. L’Italia, però, è variegata e ancora tanti sono convinti che le buste paga crescano proporzionalmente all’incremento del potere dei sindacati. È un controsenso. Altrimenti non si spiegherebbe perché il sindacato più forte d’Europa (la Cgil ndr) ha i salari più bassi d’Europa».
di Tobia De Stefano 04/03/2011