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I territori dell'eccellenza al test globalizzazione


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#1 XCXC

XCXC

    TpX2MI

  • Ambasadiani MIra
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    Medaglie








Inviato 09 August 2012 - 17:52:50


I territori dell'eccellenza al test globalizzazione



viaggio_distretti_italia_258.jpg

Il viaggio terminò alla fine del 1992. L'Italia navigava nella bassa marea della Prima Repubblica ma l'economia reale marciava in beata solitudine fiduciosa nelle sorti progressive della creatività e del saper fare connaturato con l'italianità. Gli inviati e i giornalisti scandagliarono la trama e l'ordito dei distretti industriali, forse l'unico, vero grande tesoro messo insieme dalla generazione di imprenditori italiani sopravvissuta alla catastrofe della seconda guerra mondiale.

Da quell'inchiesta nacque un libro dal titolo evocativo: «Gioielli, bambole e coltelli», viaggio de Il Sole 24 Ore nei distretti produttivi italiani. Vent'anni dopo, il direttore ci ha chiesto di tornare nei luoghi che originarono i distretti, misurando questa volta l'efficienza, l'innovazione, il tasso di export e le trasformazioni (o le crisi) intervenute nel corso di questi anni non solo con approfonditi reportage, ma anche attraverso l'elaborazione di un rating sintetizzato dai tre punti di forza e tre di debolezza del distretto. Una rapida successione di cifre e giudizi imparziali che come un'istantanea riprodurranno lo stato di salute (o di malessere) dei distretti.

Da Agordo, nel Bellunese, a Casarano, nel basso Salento; da Calargianus, in Gallura, a Gardone Val Trompia, in provincia di Brescia, i giornalisti del Sole svelarono ai loro lettori un'Italia orgogliosa e fattiva che attraverso il network delle imprese racchiuse nei distretti industriali competeva sui mercati di tutto il pianeta. Sessantacinque furono le tappe di quell'interminabile viaggio alla ricerca di toponimi e prodotti in parte misconosciuti agli stessi reporter. Alzi la mano chi sappia in quale provincia sorge Frosolone, la patria di forbici e coltelli made in Italy, oppure Palosco, a quel tempo epicentro mondiale nella produzione dei compassi. E così da Biella a Matera, da Parma a Castelfidardo i giornalisti-cartografi ricomposero la mappa geo-economica dell'azienda Italia, una mappa fino a quel momento priva di punti cardinali, latitudine e longitudine, individuati una volta per tutte da quell'inchiesta, una sorta di pietra angolare della manifattura italiana.

Paese che vai distretto che trovi, così si srotolarono storie imprenditoriali, di innovazione e creatività, filiere lunghe e corte, spin off spontanei incoraggiati dall'impresario di prima generazione che aiuta il suo operaio a mettersi in proprio per produrre una molla che poi entrerà a far parte del mosaico ricchissimo e puntiforme dell'industria italiana.

Il direttore Gianni Locatelli, che volle quel primo viaggio, scriveva nella prefazione al libro del '92: «Nel confronto internazionale, l'Italia difetta certamente di grandi imprese. Ma se i 65 distretti attuali (e tutti quelli che verranno) cominciassero a funzionare come altrettante "grandi imprese" il confronto non sarebbe più così impari e, soprattutto, il sistema Italia troverebbe ben altre possibilità di competizione internazionale». Non è andata come ci si sarebbe aspettato.

L'Italia, nella competizione internazionale, ha perso più di qualche posizione. I distretti però sono ancora lì, vivi e vegeti, con le inevitabili e quasi auspicabili metamorfosi.

A loro se ne sono aggiunti altri, almeno un terzo in più, neonate aggregazioni di filiere produttive che gli inviati racconteranno ai loro lettori come fecero i loro omologhi di un tempo. In questi vent'anni si sono verificati cambiamenti che hanno modificato in profondità il paesaggio industriale italiano. La globalizzazione ha rimodulato tutto. Se già allora i sistemi distrettuali erano export-oriented, come buona parte di una economia nazionale costretta storicamente dall'afasia del mercato interno a proiettarsi all'estero, adesso sono stati rimodellati dall'apertura dei mercati internazionali. Che sono luoghi di dura competizione. Posti dove si guadagna e si cresce, ma anche dove si perde e si muore. E, così, per molte aziende italiane la classica integrazione interna ai sistemi economici locali ha fatto il paio con l'ingresso nelle reti lunghe della manifattura globale. Negli ultimi vent'anni, in questo nuovo contesto, sono emersi nuovi protagonisti.

Come le medie imprese internazionalizzate teorizzate nel canone del Quarto Capitalismo dal vecchio Istituto di storia economica della Bocconi e studiate dall'ufficio studi di Mediobanca. Medie imprese che sono spesso integrate nelle economie di territorio. Economie di territorio che, peraltro, non possono non avere subito effetti dall'altro fenomeno che ha mutato in maniera radicale la struttura produttiva italiana: la crisi della grande impresa, con il progressivo rimpicciolimento dei grandi gruppi privati e post-pubblici. Un fenomeno che ha riconfigurato gli assetti e gli equilibri del capitalismo produttivo italiano. A questo punto, i vecchi distretti assumono per il futuro del Paese una centralità ancora maggiore.

I cartografi aggiornano periodicamente le loro mappe. Così torneremo a visitare i distretti raccontati nel 1991 per coglierne le trasformazioni, i successi o le crisi, i punti deboli e quelli forti. E poi allargheremo la nostra esplorazioni agli altri 35 network d'impresa emersi mentre l'Italia entrava e usciva da un'altra Repubblica, la seconda. Alla fine del viaggio tracceremo un resoconto e faremo le inevitabili comparazioni con il passato. Misureremo la capacità innovativa, il tasso di competitività, il grado di robotizzazione, la quota di export, e soprattutto racconteremo le storie dei figli che nel frattempo sono succeduti ai padri. Un'altra generazione alla prova. Non solo di imprenditori, ma anche di amministratori pubblici. Guai a dimenticare che i distretti esprimono sensibilità e vocazioni di interi territori. L'unione fa la forza, e i distretti sono per loro stessa natura la risultante dell'alleanza dei ceti produttivi, uno slancio collettivo per un modello industriale che il mondo ancora oggi ci invidia: l'eccellenza della manifattura italiana.

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www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2012-08-07/territori-eccellenza-test-globalizzazione-064252.shtml?uuid=AbNLpgKG



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#2 XCXC

XCXC

    TpX2MI

  • Ambasadiani MIra
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    Medaglie








Inviato 27 August 2012 - 22:13:29


Il tris d'assi di Varese leader dell'antifurto



antifurti_258.jpg


    
      VARESE. Dal nostro inviato


C'era una volta il distretto varesino   dell'antifurto per auto. Potrebbe cominciare con il classico incipit   delle favole la storia che stiamo per raccontarvi. Anche perché nella   storia, ambientata nel dedalo di viali alberati e stradine che dal   centro di Varese si dipanano verso la periferia e il groviglio di paesi   intorno, i canoni della favola non mancano. Lieto fine compreso.
  

  Il distretto descritto alla fine del '91 nella 36esima puntata di   quella storica inchiesta non c'è più. Della ventina di aziende che,   insieme a decine di laboratori artigianali per l'assemblaggio,   occupavano 3mila persone e fatturavano 300 miliardi di lire di cui tre   quarti all'estero, ne sono rimaste solo tre.
  

                             Apparentemente un tracollo. In realtà è stata la naturale evoluzione   di un settore produttivo nato per caso dalla genialità e   dall'intraprendenza di tre amici poco più che ventenni che di giorno   facevano lavori diversi e la sera s'incontravano al bar. Si erano   inventati un prodotto e un mercato, partendo da un bisogno reale:   proteggere un bene che stava diventando sempre più costoso,   l'automobile. Erano Giuseppe Scazza, Dario Riganti e Piergiorgio Conti   di cui tutti si ricordano nell'ordinato alternarsi di villette e   capannoni nella "valle delle sirene" (come venne ribattezzato il   distretto per richiamare la vitalità da Silicon Valley). La loro   start-up, Sca-ri-co dalle iniziali dei cognomi, aveva depositato per   prima il brevetto.
  

  Il confronto economico a vent'anni di distanza per forza di cose non   può essere omogeneo. Era pur sempre il secolo scorso e le vendite di   auto continuavano a crescere. Quei 300 miliardi di lire del '91 oggi   sono diventati ben più di 300 milioni di euro, ma realizzati con   prodotti completamente diversi, molto più evoluti e sofisticati. Con   protezione volumetrica e ultrasuoni, che includono servizi post-furto di   "telematica assicurativa" allora solo immaginati dai protagonisti di   questa storia. «Varese pensa all'antifurto spaziale» era il titolo   dell'inchiesta di allora. Oggi è impensabile un modello produttivo   basato sui terzisti che assemblavano antifurto e telecomandi nei loro   laboratori: la maggior parte del fatturato deriva dal cosiddetto primo   impianto, montato direttamente dalle case automobilistiche che impongono   standard di qualità e di riservatezza rigidissimi. Si tollerano non più   di 7 pezzi difettosi su un milione.
  

  Questo non solo ha spazzato via la rete produttiva diffusa e   artigianale ad alta intensità di lavoro, ma ha anche accelerato   l'iniezione di forti dosi di tecnologie avanzate nel ciclo industriale.   Il risultato è stato un ridimensionamento drastico dell'occupazione:   sommando i numeri delle tre aziende che operano ancora in provincia   (Cobra, Metasystem e Getronic) siamo ben al di sotto del migliaio di   persone occupate. Il lavoro, dunque, ci ha rimesso, come in molti altri   comparti manifatturieri. Accanto alle linee ci sono sempre meno persone e   a scandire i ritmi ci pensano il ronzio dei robot antropomorfi che   manipolano decine di migliaia di pezzi all'ora, e le vibrazioni del   montaggio ad ultrasuoni.




Ardesia ligure battuta dalle carambole cinesi

lavorazione_ardesia_258.jpg



Un distretto scomparso. Dopo gli spettri della crisi, affacciatisi   già nei primi anni Novanta, e un periodo successivo che sembrava di   riscatto, con le aziende concentrate a battere la concorrenza dei   competitor d'oltreoceano, il polo ligure degli ardesiaci della Val   Fontanabuona è crollato. Tanto che l'ultima riunione dei rappresentanti   delle aziende raccolte nel distretto risale a due anni fa.

  E oggi gran parte di quelle imprese hanno addirittura chiuso i   battenti. A testimoniarlo sono gli stessi operatori del settore che   spiegano come, di oltre 40 imprese raccolte nel distretto, oggi ne siano   rimaste attive una decina.
È un quadro sconsolante quello che emerge   analizzando oggi la realtà della Val Fontanabuona e del Ponente ligure.   Si ha la sgradevole sensazione di assistere alla fine di una tradizione   lunga più di 130 anni (la prima teleferica per il trasporto di ardesia   risale al 1876). Anzi, l'impressione è che un ciclo industriale sia   definitivamente finito, con il ritorno a livello artigianale di attività   che, fino a pochi anni fa, sembravano destinate a rappresentare una   delle eccellenze del made in Italy all'estero. Erano i tempi in cui gli   ardesiaci avevano gran parte del fatturato proveniente dall'export,   vendendo, soprattutto negli Stati Uniti, le grandi lastre di pietra nera   per i tavoli da biliardo. Un business fiorente, che è proseguito per   anni. Erano i tempi in cui solo i biliardi con ardesia ligure erano   validati per i campionati nazionali americani; in cui i giocatori   professionisti affermavano che nessun altro tipo di tavolo aveva la   risposta balistica di quello fatto con la pietra della Liguria.
  

                             Allora pareva che quell'impiego dell'ardesia non dovesse esaurirsi   tanto presto. Mentre diventava più marginale il suo utilizzo per   l'edilizia: i famosi tetti di case e chiese liguri, i pavimenti, le   scale, l'arredo urbano e così via. Poi però, negli anni Novanta, sono   arrivate sul mercato le lastre brasiliane. E il settore ha subìto il   primo colpo, seguito da quello inflittogli dalla Cina che ha cominciato a   esportare interi biliardi. Probabilmente le lastre di questi tavoli non   sono perfette come quelle liguri. Ma i costi enormemente più bassi   hanno menato una stoccata mortale all'industria della Val Fontanabuona,   che pure ha resistito fino al 2008. Cinque anni prima, quando la giunta   regionale di allora ha tracciato la mappa dei distretti liguri,   fissandone dieci, quello dell'ardesia era uno dei pochi a essere già   funzionante, a presentare aziende concentrate a lavorare su un unico   settore e pronte, almeno sulla carta, a muoversi unite.

  Sulla carta, in effetti, più che nella realtà, perché la tradizione   degli ardesiaci si basa su aziende familiari piuttosto restie alle   innovazioni produttive e alla collaborazione con altre imprese. Non   solo: all'interno del distretto si è subito creata una contrapposizione   tra le imprese aderenti ad Assolapidei e quelle iscritte a   Confindustria.





Il ricamo «perde la stoffa» ma resiste con ordini sprint  



GALLARATE (VA). Dal nostro inviato

  Il capannone è vuoto e silenzioso. Quasi 1000 metri quadri illuminati  dagli ampi lucernari, un paio di muletti fermi con qualche scatolone  ancora da spostare, bancali di nastri con i cartoni dei vecchi modelli,  la tecnologia prevalente fino agli anni '80.
  «Fino a due anni fa qui c'erano sette telai – spiega Giovanni Orsini –  ora facciamo tutto fuori». La Zibetti e Orsini, nel cuore di Gallarate, è  lo specchio fedele del distretto del ricamo: forte di quasi 400 aziende  negli anni ruggenti del tessile varesino, numero ora quasi dimezzato,  così come dimezzato è il numero di addetti, scesi a 1.093 mentre i  ricavi sono crollati a 120 milioni.
  Chi resiste lo fa spesso con numeri ridotti: nel '92 qui c'erano 80  addetti per 12 milioni di ricavi. Ora, dopo un'ampia ristrutturazione,  si prova a ripartire con 15 persone e 1,6 milioni di vendite. «Gli altri  volevano chiudere – spiega convinto Orsini – io invece ci credo  ancora».
  Storia avvincente quella del ricamo varesino, diffuso quasi per  gemmazione attraverso la fuoriuscita di dipendenti dalla storica Reiser,  azienda creata qui da una famiglia di origine svizzera, la patria del  ricamo con il fulcro nel Canton San Gallo. L'azienda chiuse nel 1898 e i  telai vennero acquistati dai dipendenti, ormai esperti nella  lavorazione. Così nacque la tradizione locale, con decine di piccoli  laboratori di ricamo, in grado di creare domanda sufficiente per  filature, tintorie, finissaggi, candeggi e lavorazioni di ogni tipo. E  poi le macchine. Alle mitiche Saurer, di produzione elvetica, si  aggiunsero in Italia le Comerio Ercole e le Metalmeccanica per fornire  l'automazione necessaria a sviluppare i volumi, trasformando i piccoli  laboratori in vere aziende.
  Fino agli anni '80 il distretto cresce, ruba quote alla Svizzera,  combatte con austriaci e turchi, conquista le grandi firme della moda e  si getta a capofitto nei mercati internazionali. «Fummo i primi a  partecipare a Première Vision a Parigi – racconta Orsini – poi ci hanno  seguito tutti».
  Ma dietro l'angolo c'era la Cina, con la possibilità di fornire la  lavorazione a costi drasticamente inferiori, opzione che inizia ad  ingolosire grandi firme, confezionisti, marchi dell'abbigliamento. Il  trend è costante, ma la crisi di domanda recente lo ha accelerato e a  pagare dazio sono anche i terzisti, come lo storico Candeggio  Gallaratese, sceso da 45 a 13 addetti con ricavi più che dimezzati  rispetto a 20 anni fa. «L'azienda ha 105 anni e io sono qui da 45 – ci  racconta Alberto Testa – ma una crisi così non s'era mai vista. Tanti  chiudono, oppure vanno a produrre in Cina, una volta qui c'erano 10  tintorie, oggi siamo rimasti in due». Tra i clienti di Testa c'è anche  il ricamificio Aschei, che a sua volta deve lottare per tenere il  mercato. «Ho perso la fornitura di un articolo storico con un cliente  italiano – spiega Giorgio Aschei – pur essendo competitivo nel prezzo:  ma se aggiungo le spese per spedire il prodotto in Asia vado in rosso».  L'azienda, specializzata in stemmi e marchi, finora ha tenuto botta, 3,5  milioni di ricavi 20 anni fa, diventati sei oggi. Ma l'ultimo periodo è  delicato, con ricavi in caduta e 15 dei 49 addetti diretti in Cig. «Ad  andare in Cina ci ho pensato – aggiunge – ma di fatto avrei dovuto  chiudere qui. No, preferisco resistere e puntare sul servizio, sul  design, sul campionario e l'assistenza al cliente».




Le bambole al museo, Canneto sull'Oglio si rilancia con i vivai

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L'industria cannetese delle bambole ha tenuto banco per oltre un   secolo a partire dal 1870. La Furga, negli anni Sessanta del Novecento, è   arrivata a occupare da queste parti 1.200 dipendenti, per la maggior   parte donne. Senza contare la Aga, la Faiplast, la Fiba, la Lorenzini,   la Zanini e Zambelli.

  Senza contare le imprese di accessori per bambole, di pianoforti e   chitarre giocattolo, di cavalli a dondolo, i produttori di stampi, le   aziende litografiche che realizzavano etichette, cataloghi, imballaggi.   Ruotavano intorno al distretto della bambola circa 2.500 addetti, una   cifra pari a oltre la metà degli abitanti di Canneto.
Poi sono arrivati gli anni Settanta. La Furga, caduta in dissesto, è stata acquisita e rilanciata da Vittorio Grazioli.
Finché   nel mercato non sono entrati i cinesi a rompere i prezzi con i loro   bassi costi di manodopera. Da quel momento la competizione è diventata   impari. Per il paese dei balocchi è cominciato il declino. L'area era   già in disarmo nel '92, quando Il Sole-24 Ore pubblicava la sua prima   inchiesta sui distretti industriali. La Grazioli aveva già allora   diversificato nei mobili e nei giocattoli in plastica da giardino,   attraverso la Grand Soleil.
  

                             In questi venti anni l'economia locale ha cambiato pelle. Sulla riva   sinistra dell'Oglio è ritornata a imporsi l'antica tradizione   agricolo-vivaistica, che risale al Quattrocento. Oggi le bambole e i   bebè in bisquit della ex Furga si possono solo ammirare al museo di   Canneto, peraltro in fase di ristrutturazione fino a dicembre. La Grand   Soleil, ceduta da Grazioli alla Giò Style e da questa al gruppo Igap   (150 milioni di ricavi e sede a Cogozzo di Viadana), è ancora qui a   testimoniare i trascorsi manifatturieri di questi luoghi. L'azienda,   trasformata in braccio operativo della Igap, ha completato nel 2011 un   piano triennale d'investimenti da 40 milioni. Un'altra importante   presenza, nella meccanica, è quella del gruppo Antonio Vienna, di   Bollate, insediatosi di recente a Canneto per produrre componenti per   oleodotti, torri eoliche e alberi di trasmissione per navi. A regime   occuperà 250 persone.
  

  Ma è l'attività vivaistica a trainare, sia pure a fatica, oggi   l'economia cannetese. Il distretto si estende su una superficie stimata   di 2mila ettari e rappresenta la principale area di produzione di piante   a foglie caduche. Tremila le varietà coltivate ed esportate in Europa,   troppe. Cento le aziende produttrici. Le piante di Canneto sono arrivate   fino in Turkmenistan. Nei periodi di vacche grasse il comprensorio ha   fatturato 40-50 milioni e occupato 800-1.000 persone. Ma sono cifre   approssimative. Manca un sistema di rilevamento dei dati.





Le scarpe di Vigevano corrono con il lusso

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      I passi perduti sono italiani. Le impronte che li hanno sostituiti   sono cinesi. Il distretto vigevanese della calzatura, in provincia di   Pavia, ha perso perfino il dialetto – che da queste parti è identità e   cultura – per fare giocoforza spazio al mandarino, ma l'élite   sopravvissuta di imprenditori è, come un tempo, sempre con la valigia in   mano e i campionari dentro, pronta a salire su un aereo per chiudere in   tutto il mondo affari milionari.

   Nella città ducale in 50 anni è cambiato tutto ed è come se non   fosse mai stato scritto il reportage di Giorgio Bocca sul boom economico   del dopoguerra.
Nel 1962, sul quotidiano Il Giorno, il giornalista   scrisse di Vigevano: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se   esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti   cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a   battaglioni affiancati, di librerie neanche una».
Ora a fare soldi   non ci pensa più nessuno, gli abitanti sono 63.700, gli operai rimasti,   uno dopo l'altro vanno in cassa integrazione, le poche librerie chiudono   e quasi tutti i milionari calzaturieri se ne sono andati o hanno chiuso   prima della crisi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Quelli che   sono rimasti, i soldi li hanno reinvestiti nelle fabbriche: se la   roulette ha girato per il verso giusto sono rimasti sul mercato,   altrimenti ci hanno rimesso anche il patrimonio.

                             Non solo: gli operai, nella città ducale a 45 km da Milano e 25 da   Pavia, sono stati via via sostituiti da una pletora indefinita e   indefinibile di lavoratori edili che hanno contribuito al boom del   mattone in una città dove le case non si vendono più da anni anche se in   consiglio comunale c'è chi ancora pensa di basare il futuro su una   nuova espansione urbanistica magari fatta a colpi di centri commerciali,   compreso un outlet, di cui si favoleggia da anni, che se mai fosse   costruito diverrebbe il tappo che farebbe implodere un territorio in cui   le infrastrutture viarie – ferrovie e strade – sono degne di un Paese   in via di sviluppo.
Forse per orgoglio, forse per cecità, qui   analisti, sindacalisti e imprenditori contestano che un territorio possa   essere letto (anche) attraverso i numeri. Sarà ma – soprattutto a chi   li usa per calzarli in una forma che poi diventa scarpa – i numeri   dovranno pur dire qualcosa sulla trasformazione del distretto.
  

  Nel 1907 i calzaturifici erano 36, gli addetti 1.470, gli artigiani   8mila e le paia prodotte ogni giorno 1.110. Nel 1962 le imprese erano   970 e le paia sfornate ogni anno 27,5 milioni, di cui 14 esportate. Fu   l'apice. Poi il crollo. Nel 1992 le aziende rimaste erano 150 e oggi,   dichiara Massimiliano Boccanera, dell'Unione industriali di Vigevano,   «le imprese industriali saranno al massimo una quindicina con circa 800   dipendenti di cui la metà è assorbita dal calzaturificio Moreschi, vanto   dell'area e fortemente legato all'idea del made in Italy». A queste   vanno aggiunte 40/45 medie imprese e all'incirca altre 300 realtà   artigianali. «Anche per noi – dichiara Roberto Gallonetto, segretario   generale di Confartigianato Lomellina – è dura contarci. Quello che   sappiamo è che nel primo trimestre del 2011 le 41 aziende   metalmeccaniche della calzatura non avevano chiesto una sola ora di   cassa integrazione. Nei primi tre mesi di quest'anno ne hanno chieste   801».




I bottoni dimenticati guardano al fashion


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      Sulla carta non esiste più da tempo. Sono quasi due anni che   Confindustria Bergamo ha cancellato con un tratto di penna il gruppo dei   bottonieri, facendo confluire i pochi iscritti rimasti ancora attivi   nella più consistente schiera del tessile-abbigliamento.

   In realtà, i bottonieri non sono del tutto spariti dalla provincia   bergamasca e bresciana, anche se, rispetto ai fasti dei primi decenni   del secolo scorso, del distretto nato dalle acque dell'Oglio, a cavallo   tra le province di Bergamo e Brescia, oggi resistono ben poche realtà.   Il valore della produzione di quel che resta della cosiddetta «button   valley», sparpagliata lungo una manciata di chilometri dell'autostrada   A4, è oggi pari a 150-200 milioni di euro (circa 78 milioni vanno in   export), per una settantina di aziende che danno lavoro a poco più di   1.500 dipendenti. Numeri ancora di tutto rispetto, ma irrisori rispetto   all'immagine che questo territorio aveva per esempio negli anni Trenta,   quando le aziende dell'Oglio, partendo dal centro propulsore del comune   bergamasco di Grumello del Monte, riuscivano a esportare fino a 27mila   quintali di bottoni in tutto il mondo. Qualcosa come sette miliardi di   pezzi, per un controvalore che all'epoca era di oltre 150 milioni di   lire. Poi tutto è precipitato, e la crisi si è manifestata in maniera   veramente rapida, visto che solo vent'anni fa il distretto fatturava   ancora 400 miliardi di lire e contava 210 imprese.
  

                             «Il mercato si è spostato verso Oriente, nei Paesi a basso costo di   manodopera – spiegano da Confindustria Bergamo –, e il distretto,   fondato soprattutto su un'economia caratterizzata da un elevato apporto   di lavoro, si è sbriciolato sotto i nostri occhi».
Oggi i bottonieri   associati a Confindustria si contano sulle dita di una mano. Sono   rimaste ancora attive diverse realtà molto piccole, ma pochi veri   leader. Difficile, poi, trovare ancora attiva una produzione di bottoni   pura. Molti hanno chiuso, qualcuno è andato all'estero, ma soprattutto   si è diversificato nelle cinture o nelle chiusure lampo. Qualcuno ha   addirittura cambiato settore. Si è salvato chi ha puntato sul fashion e   sull'alta qualità. «Il punto debole di questo territorio – sintetizzano   da Confindustria Bergamo – è nella mancanza di una guida unitaria: la   globalizzazione e l'apertura verso i mercati conosciuta negli ultimi   anni richiedeva al distretto una guida unica, mentre questo territorio   aveva mille teste, ognuna determinata a navigare nella propria   direzione».
  

  Tutto il settore italiano in questi anni ha praticamente alzato   bandiera bianca. Fuori dal distretto, a Cuneo, ha destato per esempio   scalpore la resa di un'azienda celebre come il Bottonificio fossanese.   In provincia di Bergamo ha invece conosciuto difficoltà un'azienda come   Limar, vale a dire l'ex Mpb della famiglia Perletti, altra storica   insegna della zona. Le piccole realtà costrette in questi anni a fare   ricorso in maniera massiccia agli ammortizzatori sociali non si contano   più. «Molti hanno gettato la spugna – conferma Daniela Fenili,   consigliere d'amministrazione del Bottonificio Fenili –, ma il distretto   c'è ancora. Le aziende ci sono ancora, anche se hanno cambiato pelle.   Innanzitutto non esistono più le specializzazioni di una volta. Bottoni   di corno, di madreperla, di corozo, di osso, di resina di poliestere, di   galalite, di metallo, di cuoio, di zama: si fa qualunque cosa per   soddisfare le richieste di una clientela sempre più esigente, che   ricerca competenza, elasticità e velocità nelle risposte e nella   realizzazione di prototipi. Oggi la concorrenza estera è più aggressiva:   cinesi, turchi, spagnoli. Per questo motivo bisogna puntare su un   mercato di alta gamma, che però va servito da vicino, con estrema   elasticità».





Una svolta «green» ed etica per le concerie di Arzignano

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ARZIGNANO (VI). Dal nostro inviato


Vent'anni hanno cambiato quasi   tutto, tranne la "cattiva fama" che si portano dietro: quella di essere   addetti a una lavorazione sporca, maleodorante, in un settore difficile,   magari ricco, ma talvolta ai limiti del lecito.
Loro, i conciari,   non si riconoscono in questa immagine, di sicuro non più. Se nel 1991 la   sfida era quella di un possibile matrimonio fra l'industria e   l'ambiente, ora la svolta verde è un dato acquisito. «Se non fossimo   cambiati, semplicemente non esisteremmo più», taglia corto Valter   Peretti, presidente della sezione concia di Confindustria Vicenza, 77   aziende associate che rappresentano circa la metà (4.675) degli 8.350   dipendenti totali.
  

  Il cambiamento è stato epocale: il sistema della depurazione delle   acque è stato completamente rivisto, e oggi non è più un problema: «Il   monitoraggio che fa seguito all'accordo di programma del 2005 dice che   stiamo rispettando tutti i parametri imposti – spiega Peretti – anzi,   siamo tarati su limiti più restrittivi di quelli a livello nazionale. Di   fatto abbiamo anticipato la norma europea». I costi, tuttavia, sono   stati elevati: tuttora, fra voci dirette e indirette, si aggirano sul 5%   del fatturato. Il risultato è che il famigerato odore del pellame   trattato si sente sì, ma non nelle zone dove si produce: gli occhi e la   gola bruciano avvicinandosi alle vasche di raccolta dell'impianto di   depurazione, che non a caso sono in fase di copertura.
  

                             Intanto il distretto è tornato, per quantità prodotte, ai livelli   degli anni Ottanta: nel tempo si sono susseguite fasi diverse, la forte   salita di metà anni Novanta, la leggera discesa fino al 2000, il nuovo   exploit degli anni fino al 2005. A pesare, soprattutto, la frenata   dell'arredamento, la retromarcia dei distretti del Sud dove si producono   i divani. Nel 2006, ultimo anno positivo, si producevano 44 milioni di   metri quadri di pelli destinati ai salotti, oggi sono 21. E non è   nemmeno, strettamente, una questione di concorrenza: in Cina si esporta   più di quanto si importa, e solo qui, ad Arzignano, si propone una   continua innovazione, di prodotto e di processo, per stare dietro alle   richieste, fra l'altro, della moda. «Quello che ci tiene in piedi è   questo continuo miglioramento», commenta Peretti.
  

  La concia ad Arzignano produce il 51% del fatturato italiano e il 32%   di quello europeo del settore, l'8% a livello mondiale. La Cina è il   primo mercato di destinazione, seguita dall'Europa. Nel paese – 23mila   abitanti di cui oltre 5mila stranieri, retto da una giunta di   centrodestra – ci sono ancora gli spazi, oggi inutilizzati, lasciati   dalle concerie che un tempo si trovavano in centro all'abitato; altre ex   industrie sono state recuperate e destinate ad abitazioni, altre ancora   sono un cantiere ricoperto da una gigantografia di quel che sarà,   sempre da destinare alla residenza. Arzignano ha un hotel, che manca   perfino in altri paesi veneti che fanno del turismo la propria   vocazione, e lungo lo stradone la concessionaria delle Audi «che qui   vanno via come il pane», dice un residente. Nella zona industriale,   lungo le strade a raggiera numerate (prima, seconda, terza) si   incontrano praticamente tutte le principali realtà di un polo da sempre   fortemente orientato all'export: 1,8 miliardi sul totale di 2,5.




I fucili di Gardone Valtrompia «minacciati» dal digital divide

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Una valle da secoli aggrappata ad un antico sapere fare. Gardone   Valtrompia è la capitale italiana, se non europea e mondiale, delle armi   sportive. Il piccolo centro non è molto distante da Brescia, ma la   strada è trafficata, nonostante la comunità aspetti da anni collegamenti   più veloci.

                             Servono quindi quasi tre quarti d'ora per salire in Valle, una decina   di minuti in più rispetto al tempo che ci si mette a raggiungere   Lumezzane, l'altro grande polo industriale (dove si producono casalinghi   e valvole) della zona.
Gardone è più su di Lumezzane. E, complice   la villa della famiglia Beretta e l'omonimo stabilimento a ridosso   dell'abitazione (le prime tracce dell'attività armiera dei Beretta   risalgono al 1526), questo centro a ridosso delle montagne conserva una   certa eleganza, un fascino diverso rispetto a quello che sprigiona   l'incontrollata e disordinata industrializzazione lumezzanese.
Il   cuore del distretto delle armi è qui. L'identikit comprende, in estrema   sintesi, una grande azienda diversificata e internazionalizzata, che si   accompagna ad un pugno di realtà consolidate e di prestigio (tra queste   per esempio Fabbri e Perazzi, aziende per le quali anche Eric Clapton o   il re di Spagna Juan Carlos si scomodano ogni tanto per una gita in   valle) e decine di piccoli artigiani che sanno costruire fucili da   generazioni, come sembra naturale in questo territorio in cui ferro ed   acqua non sono mai mancati.

  Oggi la filiera gardonese è composta all'incirca da 140 imprese,   soprattutto artigiane, medie e piccole, per un comprensorio che, oltre a   Gardone Valtrompia, si estende in una ventina di comuni e dà lavoro a   circa 5mila persone comprese l'indotto. In queste zone si concentra il   settanta per cento della produzione di armi sportive europea, il   cinquanta per cento a livello mondiale. Le radici solide e un saper fare   trasmesso da generazioni hanno permesso al distretto, in questi ultimi   venti anni, di reagire a ogni nuova minaccia con vigore. Negli ultimi   mesi il comprensorio armiero gardonese è riuscito anche a vedersi   finalmente riconoscere la qualifica di distretto, partecipando ad   appositi bandi finanziati dalla Regione Lombardia.
Quello di oggi è   senza dubbio un distretto molto più coeso rispetto a quello di 20 anni   fa, molto più consapevole dell'importanza di fare rete. Gli scricchiolii   dell'età, però, si fanno sentire. La concorrenza low cost dei turchi e   dei brasiliani, per esempio, nonostante la produzione gardonese sia di   ben altra qualità, è sempre più aggressiva. Qualcuno in questi anni ha   dovuto alzare bandiera bianca, come la Bernardelli armi, storica azienda   della zona, che nel 1997 è giunta al capolinea ed è stata rilevata   dall'imprenditore turco Aral Aris.





La qualità tedesca è made in Palosco

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«Per piacere questo no, per i miei studenti voglio solo Staedtler, la   migliore qualità tedesca». Marisa Alessi racconta divertita la   "performance" del professore di liceo di sua nipote a Bergamo.

  Chiedeva compassi di alta qualità, rifiutava il marchio Alessi, solo   una visita cortese dell'imprenditrice gli ha aperto gli occhi: i mitici   Staedtler nascono a Palosco, prodotti da imprenditori italiani come   Alessi, l'unico elemento teutonico è il brand.
Storia antica quella   del distretto, avviato a fine '800 da alcuni viaggiatori in arrivo da   Milano, chi dice Colombo, chi Bardelli, in grado di portare la   tecnologia per disegnare cerchi e di impiantare i primi laboratori.
Dove   si lavora tutto a mano, in una giornata si producono al massimo   tre-quattro prodotti, nel 1921 sono 30 gli addetti coinvolti in cinque   botteghe. Nel dopoguerra arriva il boom, si inseriscono macchine   utensili, la lavorazione dell'ottone diventa industriale, Palosco assume   la leadership europea del settore. Nel 1992 sono una quindicina le   aziende attive (25 con l'indotto), per 30 miliardi di lire di fatturato e   una produzione che vale il 60% del mercato europeo, con 15 milioni di   pezzi prodotti e quasi duecento addetti.

                             A 20 anni di distanza il distretto è "dimagrito", le chiusure sono   state solo un paio, più penalizzato l'indotto mentre i ricavi globali   sono scesi a circa 15 milioni, stabili in termini nominali ma ben al di   sotto del livello reale del 1992. Poche realtà hanno gli stessi addetti   di allora, i più hanno ridotto il personale del 20-30% e così   l'occupazione in 20 anni si è quasi dimezzata. Eppure le aziende, tutte   rigorosamente a gestione familiare, cercano di resistere, provano a   innovare, entrano in nuovi mercati, fanno di tutto pur di tenere in vita   attività e posti di lavoro. L'utilizzo dell'indotto locale è ancora   massiccio con minuteria metallica, ottone, plastica e macchinari quasi   integralmente acquistati in un raggio di pochi chilometri.
  

    Il prodotto  
Un cerchio è un cerchio, ma si può fare con maggiore o minore   precisione, come ricorda chi come il sottoscritto non brillava in   disegno tecnico. Il top di gamma nel comparto è il "balaustrone", dove   il raggio è regolato da una vite micrometrica e l'intera struttura è in   ottone. «Questo prodotto – spiega Marisa Alessi mostrandoci il suo   "gioiello" – vale il 50% dei nostri ricavi, abbiamo puntato qui per   smarcarci dai cinesi, produciamo tutto noi e la qualità è decisamente   diversa». L'azienda, 18 dipendenti, fattura 1,3 milioni, il 30% in più   rispetto al '92 ma considerando l'inflazione in termini reali c'è una   frenata. «Del resto un balaustrone si vende a poco più di cinque euro ed   è già bello resistere – spiega –, la domanda è destinata a calare anche   perché l'innovazione si può fare solo su aspetti secondari, come design   e confezione: nel compasso c'è poco da inventare». Strategia diversa   per il big del territorio, la Gbp, che in passato produceva solo in   ottone, ora quasi tutto in zama, una lega di zinco e alluminio con costi   di produzione inferiori. «Puntiamo su questa fascia – spiega Barbara   Belometti – e sul design, inserendo colori e nuove forme, oppure modelli   particolari senza viti. Lo spazio per innovare io credo ci sia: certo,   con aziende delle nostre dimensioni invenzioni epocali è difficile   averle».

L'Empolese Valdelsa affianca al capospalla hi-tech e alimentare

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      L'economia di questo territorio ha un motore ibrido. Che utilizza più   fonti. L'abbigliamento vent'anni fa rappresentava (come valore   aggiunto) circa il 20% della produzione manifatturiera dell'Empolese   Valdelsa, e quasi il 30% in termini di occupazione: oggi i due   indicatori non raggiungono l'11 e il 14% sui 2 miliardi di ricavi   realizzati nel 2011 dalle 17mila imprese dell'area.

  Non solo: fatto 100 il valore aggiunto degli anni 90 – secondo   l'Istituto regionale di programmazione economica – il comparto delle   confezioni è sceso a 82, mentre il manifatturiero ha tenuto la posizione   (100,7) e l'economia in generale ha raggiunto quota 145, grazie   soprattutto al terziario.
Quella che era una connotazione industriale   marcata, al punto da far parlare di vero e proprio distretto   dell'abbigliamento (la patria dell'impermeabile e del capospalla), si è   progressivamente affievolita: più che dimezzate le aziende del comparto   (da oltre 5mila a neppure 2mila); scomparso l'indotto costituito quasi   esclusivamente da manodopera femminile, che lavorava a casa, sostituito   per la parte ancora esistente da immigrati cinesi di prima e seconda   generazione, presenti anche nel terziario commerciale e della   ristorazione (almeno 6mila, di cui un migliaio impegnato a tagliare e   cucire); ma neppure un gruppo in grado di trainare la filiera   produttiva.
  

                             Il sistema moda locale si è progressivamente integrato nel polo   fiorentino del lusso, il più importante d'Italia (e uno dei maggiori a   livello mondiale). Lo spartiacque, l'evento che l'anno scorso ha segnato   simbolicamente questo cambiamento è il passaggio alla coreana Lg   Fashion corporation del marchio Allegri (il fondatore, Augusto Allegri,   fu tra i primi a produrre Giorgio Armani negli anni '70), con un   centinaio di persone che nello stabilimento di Vinci ancora alterna   lavoro e cassa integrazione.
Va bene chi, da una parte, guarda al   mercato internazionale e dall'altra riesce a dialogare con la rete di   sub-fornitura cinese. Come nel caso di Visconf, azienda che produce   capispalla per donna di fascia medio-alta, con 29 dipendenti diretti e   10 milioni di ricavi, per il 55% realizzati all'estero. «Vent'anni fa   non vendevano niente fuori Italia, adesso è la domanda internazionale   che traina – racconta il titolare, Gianluca Violanti –. Le aziende   dell'indotto, molte delle quali a guida cinese, assicurano qualità e   rispetto dei tempi. Ma ormai mancano pezzi di filiera – aggiunge –, e   parlare di distretto sarebbe azzardato».
  

  L'industria delle confezioni non è più l'asse portante dell'economia   degli undici comuni che compongono il circondario (Empoli,   Castelfiorentino, Capraia-Limite, Cerreto Guidi, Certaldo, Fucecchio,   Gambassi, Montaione, Montelupo, Montespertoli e Vinci), dove vivono   170mila persone. «Il distretto dell'abbigliamento è scomparso», taglia   corto Vasco Galgani, imprenditore dell'area (settore turistico),   presidente della Camera di commercio di Firenze e di Unioncamere   Toscana. «Mancano le aziende leader in questo campo – aggiunge – e in   troppi hanno preferito la rendita immobiliare al rischio d'impresa».



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Inviato 30 August 2012 - 01:04:31


Il tesoro del brand Valenza nel mirino dei fondi asiatici



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VALENZA (AL). Dal nostro inviato





È tutto oro quel che luccica   fuori dai confini. Dentro il perimetro, invece, il distretto del   gioiello di Valenza (Alessandria) non ostenta né ricchezza, che pure non   manca, né spocchia, che pure è tipica del provincialismo immaturo di   ogni latitudine e longitudine.
  
In questo comune piemontese che supera di poco 20mila abitanti, la   vita sembra scorrere tranquilla e senza alcuno scossone sociale e   l'integrazione, tra italiani ed etnie che sono giunte fino a qui per   cercare un lavoro, è un dato di fatto. «Può sembrare strano e forse   anche un po' paradossale alla luce dei tesori che custodiamo – spiega   Franco Fracchia, responsabile Fiere e promozione Valenza Expo –, ma di   notte c'è una sola pattuglia delle Forze dell'ordine che gira per la   nostra città».
  

  Lavoro, lavoro e lavoro – dunque – anche se il passaggio   generazionale comincia a creare qualche problema quando i figli non   partono dalla gavetta ma puntano a fare i manager e non necessariamente   con ambizioni interne alle attività di famiglia.
  

                             Forse anche per questo non sarà facile resistere agli enormi capitali   delle finanziarie asiatiche che – sempre più prepotentemente – stanno   cercando di rilevare in moneta contante marchi e brand di alto profilo   qualitativo magari poco noti in Italia ma ricercati all'estero per la   qualità inarrivabile. Molti imprenditori resistono ma fino a quando? Un   gioielliere quotato di Valenza, che da anni percorre in lungo e in largo   i cinque continenti, parla con il Sole-24 Ore a patto di mantenere la   riservatezza. «Prima dell'estate – spiega con una pacatezza che la dice   lunga sulla certezza di avere tra le mani un mestiere inimitabile – mi è   arrivata una mail con una proposta pazzesca da parte di una finanziaria   cinese. E guardi che non sono l'unico al quale giungono queste offerte.   Le valuto, le valutiamo, sempre con estremo interesse ma, per quel che   mi riguarda, sempre a patto che sia la mia impresa a dettare le   condizioni. Per il momento il discorso è sospeso. Ci siamo dati tempo   per conoscerci, approfondire il discorso e, se del caso, cominciare a   collaborare sui mercati asiatici. Per ora però non vendo».
  

  La città appare proprio come un baccello prezioso dall'interno del   quale, uno dopo l'altro, è ancora possibile sgranare i semi di un   distretto che, anziché perdere l'identità, l'ha saputa rafforzare.
  

  La vocazione al lusso e all'export – infatti – è inarrestabile. Nel   2011 il valore delle esportazioni ha toccato quota 704 milioni che – al   netto dei forti aumenti del prezzo dell'oro – vuol dire + 5% sull'anno   precedente. Un giro di affari all'estero enorme, se solo si pensa che il   fatturato 2010 delle 110 maggiori aziende valenzane è stato di 752,2   milioni, con un tasso annuo medio di crescita dal 2005 del 2,8 per   cento. Il fatturato complessivo è di circa 1,5 miliardi: quindi l'export   copre circa il 50 per cento.





Caccia aperta ai diamanti da russi, indiani cinesi e rumeni



VALENZA (AL)


  Marco Borsalino importa e vende diamanti da oltre 40 anni. È sempre  stato avanti rispetto ai tempi, anche quando la concorrenza non era così  agguerrita. Oggi il distretto di Valenza contempla commercianti  indiani, oltre a russi, rumeni, cinesi e via di questo passo che  smerciano pietre preziose con una filosofia che è distante anni luce  dalla sua e da quella della seconda generazione. «Gli indiani sono  abilissimi a trattare – dice Borsalino – e di fronte alle offerte non  rispondono e prendono tempo, tanto tempo».
  È ancora al suo posto in un ufficio iperblindato al centro di Valenza  che il 26 giugno 2009 nulla ha potuto contro una rapina attuata da  professionisti travestiti da finanzieri, in seguito arrestati. I figli  Miriam e Matteo sono accanto a lui e con un'abilità certosina scelgono e  dividono i diamanti sulla base di criteri rigorosissimi. «Pensi – dice  Marco Borsalino lontano dalle orecchie dei figli – che Matteo non voleva  saperne di questo mestiere. Ora la sua dedizione e quella della sorella  hanno migliorato la qualità e il prestigio dell'azienda».
  L'anello della filiera che l'importatore e il venditore di diamanti  rappresenta nel distretto del gioiello è debole perché i rischi di  tradire la fiducia sono alti ma la sua impresa è un punto di riferimento  per Valenza (e non solo) proprio per la serietà che il fondatore ha  trasmesso a tutti i dipendenti, gli stessi da anni e fidatissimi.  «Abbiamo sempre una risposta ad ogni esigenza dei clienti perché la  nostra forza – dice Borsalino – è un magazzino di qualità» ed appare un  paradosso perché è difficile che un imprenditore di questi tempi tenga  ferma (magari a lungo) la propria merce. Il paradosso è solo apparente  perché questa azienda è allenata a competere sulle piazze di Bombay,  Anversa e Tel Aviv con un'arma che è disarmante: la ricerca del giusto  prezzo. «In molti – conclude Borsalino – nelle piazze estere e italiane  non hanno il senso etico del denaro. Noi acquistiamo magari dopo  settimane di trattative. I migliori affari li ho fatti nella hall di un  aeroporto e solo così posso acquistare e vendere senza ferire». Il  riferimento – non casuale – è anche all'acquisto di diamanti che non  siano "sporchi" del sangue di lavoratori sull'orlo della schiavitù.  Anche per questo Valenza è ricca ma non ostenta.



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Inviato 30 August 2012 - 01:14:42


Sulle bilance di Oggiona il pressing dei produttori cinesi



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  All'uscita di Cavaria, sulla parete di un capannone campegggia l'insegna "Fulgor", pare un buon auspicio.

  Ma è un'illusione. Gli imbianchini si rifiutano di cancellarla senza   un cantiere protetto, che in autostrada ha costi rilevanti. Così, mentre   la produzione di bilance qui è cessata da anni l'insegna rimane, in   memoria di un passato glorioso, che vedeva il distretto varesino della   pesatura al top in Italia e ai primi posti nel mondo.

                             Vent'anni fa si concentrava qui il 70% della produzione nazionale di   mezzi di pesatura, 60 milioni di euro di ricavi e decine di aziende per   oltre mille addetti diretti. Numeri oggi scesi drasticamente, con il   distretto che occupa poco più di 600 addetti, con ricavi scesi a meno di   un terzo del totale nazionale. E mentre in 20 anni la produzione   italiana di bilance e affettatrici (altro punto di forza dell'area),   quadruplicava a 431 milioni, per la provincia il bilancio dei ricavi è   un magro +35%, al di sotto dell'inflazione di periodo.

  La sintesi del cambiamento ce la fornisce l'assessore alle attività   produttive di Oggiona con S.Stefano, cuore del distretto. «Stiamo   diventando un paese dormitorio – spiega Maurizio Regata – ogni giorno da   qui si spostano per lavorare 1.075 persone, vent'anni fa erano la   metà».

  Scorrendo l'elenco dei "big" di allora si trovano in effetti molti   caduti e pochi superstiti, con un processo di concentrazione che ha   accorpato molti marchi riducendo però gli addetti e spostando altrove   quel che restava delle aziende vendute o liquidate. Omega, che contava   120 addetti, ha venduto e si è trasferita, in parte a Napoli in parte a   Bologna; Fulgor è passata a Ibr, ora a sua volta passata alla milanese   DataProcess; Suprema ha chiuso, così come Santo Stefano, terza realtà   del distretto 20 anni fa, anch'essa rilevata dalla milanese DataProcess   mentre Zenith è stata comprata da Italiana Macchi. «Guardi, non prendo   appuntamenti – ci spiega al telefono un dipendente della Arsa – entro   fine anno chiudiamo, sono rimasto solo io».

  Respingere l'assalto dei prodotti poveri – raccontava 20 anni fa al Sole 24 Ore un imprenditore – sarà difficile.

  E così è stato. Il primo colpevole del declino è l'elettronica. Fino   agli anni '80 la tecnologia era quasi esclusivamente meccanica, e qui il   distretto non aveva rivali. Poi arrivò la cella di carico, un sistema   di sensori che traduce in impulsi elettronici le deformazioni di un   metallo, affrancando definitivamente il mondo delle bilance dalla   tradizione semi-artigiana per inserirlo a pieno titolo nelle produzioni   in grande serie con meno meccanica e più tecnologia. L'Italia ha   adottato solo nel '93 questo sistema, in ritardo di dieci anni rispetto   ai concorrenti esteri, creando un progressivo gap tecnologico per le   nostre aziende e tagliandole progressivamente fuori dai mercati esteri,   un tempo sbocco per il 70% dei ricavi, quota crollata ora al 10-20%.

Inox e design per battere la recessione



«Vent'anni fa qui lavoravamo in 33, ora siamo rimasti in otto». La  traiettoria seguita dalla Vetta Macchi è analoga a quella di tanti altri  produttori di bilance del territorio, ridimensionati dall'elettronica e  dalla Cina ma per nulla intenzionati a mollare.
  L'azienda, per reagire alle difficoltà e alla riduzione del mercato  tradizionale ha così deciso di puntare sull'altro punto di forza del  distretto: le affettatrici. «Metà dei nostri ricavi arriva da lì –  spiega l'imprenditore Marco Macchi – e senza questa scelta avremmo  chiuso». Rispetto ai tempi d'oro i ricavi aziendali si sono dimezzati a  850mila euro, per il 50% realizzati ora proprio con le affettatrici, in  gran parte vendute all'estero.
  Il comparto, nato in simbiosi con le bilance ed allargatosi nel tempo a  tutti gli strumenti utilizzati in macellerie e salumerie, ha retto  meglio dei "cugini" alla sfida della globalizzazione e qui i cinesi non  sfondano: perizia meccanica e tradizione vincono ancora sulle grandi  serie, l'elettronica resta marginale, l'export assorbe in media il 60%  dei ricavi, con punte del 90%, il made in Italy qui è ancora un punto di  forza riconosciuto, un sinonimo di qualità e design.
  Certo, la frenata progressiva del commercio al dettaglio in Italia non  ha aiutato, costringendo molte aziende a rimpicciolirsi, altre a cedere  il passo e vendere, come è accaduto a Omega, Regina, Ceg e Suprema  Taglio, marchi storici del territorio ora traslocati alla Minerva Omega  di Bologna.
  Le aziende del comparto censite in Provincia sono ancora 58 ma molte di  queste sono in realtà piccoli laboratori o semplici rivenditori, 40  realtà hanno un solo addetto, spesso impegnato nella fornitura di parti  di ricambio. Alcuni hanno scelto riparazioni e restauri, attività di  nicchia ma remunerativa: le mitiche affettatrici tedesca Berkel d'epoca,  vero e proprio oggetto di culto per gli appassionati, possono arrivare  anche a 8-10mila euro.
  Dimensioni ridotte per quasi tutte le imprese, con qualche eccezione.  Come la Fac, Fabbrica, Affettatrici Cavaria, capace di crescere del 3%  anche nel 2011 arrivando a 9,5 milioni di ricavi, il massimo storico  dell'azienda e il top assoluto sul territorio.
  Per ricavi è ora davanti alla Omas, storico (ex) leader dell'intero  distretto, un centinaio di addetti come 20 anni fa e nove milioni di  ricavi, giù del 30% rispetto al top del 2007. «Come va? Sinteticamente  male – risponde il fondatore Walter Rabolli – rispetto ai tedeschi  facciamo fatica, la loro organizzazione è formidabile: una volta in  Germania vendevamo oltre un milione all'anno, oggi ci fermiamo a 150mila  euro».
  Ma nonostante la Germania, Omas è riuscita ad affrancarsi dal mercato  interno, realizzando all'estero l'80% dei ricavi. «Andiamo meglio  rispetto alle bilance – spiega Rabolli – ma anche da noi c'è un problema  di numeri: siamo in troppi. Stiamo cercando da tempo di effettuare  qualche acquisizione per realizzare sinergie nella distribuzione e  nell'innovazione ma qui si fa fatica e nessuno vuole vendere».
  Come è il caso della Vetta Macchi, il cui laboratorio è proprio di  fronte alla Omas. «Senta che acciaio – ci dice Marco Macchi mostrandoci  con orgoglio l'affettatrice in inox sul bancale – so che è difficile, ma  l'azienda di famiglia uno non la molla mai».




TREND AL RIBASSO

La frenata
  Vent'anni fa questo era il polo principale delle bilance italiane. Oggi  in termini di ricavi rappresenta solo poco più di un terzo del totale,  con un calo di fatturato in termini reali.
  Sul territorio vengono censite 115 aziende ma molte di queste sono ditte individuali, appena una decina le realtà strutturate,
  con qualche milione di euro di ricavi.
  Gli addetti si sono ridotti drasticamente
  da 1000 a 608, complice la chiusura
  o il trasloco di molti marchi storici
  e il "dimagrimento" di quasi tutte le altre realtà esistenti sul territorio.
   Resiste meglio il distretto locale delle affettatrici, forte di 58  aziende (di cui 40 però con un solo addetto). Qui l'elettronica conta  poco e vincono ancora la meccanica,
  la qualità e il design, aree in cui i cinesi ancora non riescono a dare troppo fastidio



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Inviato 30 August 2012 - 01:32:12


Sulla pelle di Solofra il marchio delle griffe



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Sono lontani gli anni in cui Osama Bin Laden era solo un imprenditore   e nella sua testa, probabilmente, c'erano forme d'affermazione molto   differenti dalla tragedia dell'11 settembre 2001 e dalla trafila di   attentati a matrice terroristica che l'hanno reso tristemente famoso. E   sono lontani gli anni in cui un giovane Michael Jackson girava il video   di "Thriller", l'album-cult del 1982 poi risultato più venduto di   sempre.

  Quelli erano gli anni del vero boom del polo conciario di Solofra, un   paesino di circa 10mila cittadini nell'entroterra irpino, tuttora verde   e rigoglioso, una piccola Svizzera - fuori e dentro le fabbriche - nel   cuore della Campania.
  

                             Il numero uno di Al Qaeda spesso si recava nelle concerie di Solofra   per comprare pellami di alta qualità per le sue imprese in Pakistan e   Afghanistan. La popstar americana, invece, indossò nel suo video un   giubbotto di pelle rossa a strisce nere che era stata commissionata a   una conceria del piccolo centro irpino.
  

  Adesso il mondo è completamente cambiato e sono lontani i numeri di   un distretto che ha mutato via via anche i propri confini. Ma la qualità   dei pellami, la tradizione e la rapidità produttiva restano il fiore   all'occhiello di quel fazzoletto di terra che, al netto delle   fluttuazioni valutarie, quasi pare non scoraggiarsi neppure per   l'aggressione continua delle economie emergenti.

  «Siamo ancora quelli degli anni Ottanta? - si domanda Teresa   Martucci, decana degli imprenditori conciari di Solofra e cavaliere del   lavoro dal 1991, una donna che ha vissuto il polo irpino dalle origini   -. Non direi. Non è solo una questione di paradigma economico cambiato,   inutile dilungarsi sugli effetti delle ultime crisi congiunturali. Il   polo conciario di Solofra è cambiato perché sono diverse le richieste   del mercato. Se in passato i nostri interlocutori erano le industrie,   oggi sono i grandi creativi della moda e i loro uffici stile. E il   nostro distretto è chiamato ad anticipare mode e tendenze. Il compito è   difficile ma stimolante al tempo stesso: fondere artigianato e industria   per "mettere su pelle" la creatività degli stilisti e anche la nostra.   Solofra - aggiunge l'agguerrita imprenditrice - non è più il deposito   delle industrie manifatturiere del mondo, ma una fucina di idee e   innovazione. Un enorme laboratorio a servizio della moda mondiale».

  Ancora una ventina d'anni fa il distretto si estendeva su un   territorio di circa 60 chilometri quadrati, nella zona sud-occidentale   dell'Irpinia, e comprendeva anche i comuni di Montoro Inferiore e   Superiore oltre che Serino.

  Adesso il tutto si è ripiegato quasi completamente nel centro   solofrano. La produzione resta specializzata nella concia di pelli   ovi-caprine essenzialmente per calzature, abbigliamento e pelletteria   per grandissime griffe: da Ferragamo ad Armani, passando per Gucci,   Prada e Moschino solo per citare qualche esempio



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Inviato 10 September 2012 - 23:19:27


Premana sconfigge economia e storia



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Secondo i manuali di economia, probabilmente, il distretto delle   forbici e degli articoli da taglio di Premana, in provincia di Lecco,   dovrebbe essere scomparso da tempo. Soprattutto dopo che da venti anni a   questa parte si sono succeduti globalizzazione dilagante, avvento   prepotente della Cina sui mercati mondiali, crisi planetarie che come un   virus letale si sono trasferite dalla finanza ai sistemi produttivi.

  «Invece no. Siamo qui che lottiamo, nonostante non siamo esenti da   problemi e non possiamo nasconderci le difficoltà». C'è un pizzico di   giustificato orgoglio nelle parole di Danila Sanelli, presidente della   omonima Spa che nel 2014 festeggerà i 150 anni di vita nella produzione   di coltelli: 2,5 milioni di fatturato e 300mila pezzi venduti nel 2011.
Premana   – poco più di duemila abitanti – è una sorta di "caso clinico di   studio" perché assomma diverse criticità insidiose: le aziende sono   quasi tutte micro o piccole, con pochi addetti e solo il 16% che supera   il milione di fatturato; il territorio, la Valsassina, è logisticamente   penalizzato, distante dalle grandi vie di comunicazione; la produzione   che deriva dall'antica lavorazione del ferro – tipica dell'area e della   vicina Canzo (in provincia di Como, dove però il distretto gemello è   quasi del tutto scomparso) – è a scarso valore aggiunto e quindi più   esposta al fattore costo e alla concorrenza asiatica: cinese e pakistana   in particolare.
  

                             Il distretto ha conosciuto una crescita impetuosa come numero di   aziende dagli anni 50 del '900 fino ai primi del 2000. «Qui – spiega   Arnaldo Redaelli, vicepresidente della Camera di commercio di Lecco – si   contava un'impresa quasi in ogni casa, nei garage, nei sottoscala». Nel   1951 le aziende censite erano 31, mezzo secolo dopo toccavano l'apice   con 212 realtà, dopo la lieve flessione a 140 nel 1991. La produzione di   forbici raggiunge il picco a inizio anni 90, con oltre 20 milioni di   pezzi. Da quel momento inizia la discesa acuita dalla crisi degli ultimi   anni: ora si contano una settantina di realtà, mentre la produzione si è   quasi dimezzata, arrivando a 11,5 milioni. Un duro colpo, certo, che   insieme alle aziende si è portato via anche occupazione. Ma poteva   andare peggio: in questi anni altri distretti sono letteralmente   scomparsi.
  

  Se il mix di criticità non è risultato fatale il merito è anche di   alcuni antidoti messi in campo dal distretto. Uno di questi è il   consorzio Premax, che raggruppa una quarantina di aziende e ne   commercializza la produzione in Italia e all'estero. È quasi un primato,   perché, come ricorda il direttore generale Giovanni Gianola, «è nato   addirittura nel 1974». I numeri sono piccoli, come tutto nei dintorni di   Premana: nel 2011 il fatturato di Premax è stato di 4 milioni, «ma nei   primi sette mesi di quest'anno siamo cresciuti del 25 per cento. Quasi   completamente all'estero. L'Italia, infatti, è ferma». Dietro alla   capacità di penetrazione oltreconfine si cela un'altra delle   contromisure: la capacità di fare innovazione anche in un settore a   basso valore aggiunto. Quasi il 10% dei ricavi di Premax vengono   investiti in ricerca e il risultato sono iniziative di marketing,   progetti strategici come il recente contratto di rete trasversale a più   settori e denominato You chef (si veda altro articolo in pagina) e   brevetti. «Uno di questi è il Ring lock system – spiega il direttore del   consorzio – che ha portato alla creazione della prima forbice senza   vite centrale». La ricerca ha poi ricadute sulle aziende, che ne   sfruttano i risultati. Una di queste, tra le più strutturate, è la Dofet   di Andrea Tenderini, che produce questo tipo di utensile per il settore   tessile. «Ora, soprattutto all'estero, veniamo percepiti come   innovatori e produttori di qualità».



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Inviato 11 September 2012 - 20:32:38


Bassano conquista i magnati russi



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Vent'anni fa – ma anche in tempi più recenti – la strada statale 47   che porta da Bassano del Grappa a Padova era una sfilata ininterrotta di   vetrine: una sorta di via Montenapoleone del mobile in stile, ricorda   chi abita in zona. Oggi, attività di vario genere si alternano a   serrande abbassate, cartelli di affittasi o vendesi, perfino rivendite   di mobili, sì, ma importati da Tibet, Cina e Mongolia.

  E annunci di saldi: meno 30%, 60%, fino al 70 per cento. Sui   cavalcavia, manifesti politici sbiaditi lasciano il posto a   dichiarazioni d'amore: «Sabry ti amo, Diego 4ever».
Nel 2005, una   delle ultime indagini Poster sulle trasformazioni del mercato e le   risposte in atto nel distretto del mobile in stile – talvolta   riproduzione fedelissima di pezzi esistenti nella reggia di Versailles o   in altre dimore storiche – mettevano in evidenza due atteggiamenti: da   uno lato quello, maggioritario, di chi giudicava strutturali i   cambiamenti legati alle nuove generazioni – che per arredare casa,   soprattutto la prima, preferivano ormai soluzioni di breve periodo e   linee moderne – con la conseguenza di dover rivedere il posizionamento   aziendale, le linee e le gamme di produzione. Dall'altro, c'era chi   valutava la situazione di difficoltà solo congiunturale e pensava a come   migliorare la propria efficienza. Già allora, i primi tentativi di far   produrre semilavorati e mobili grezzi in Paesi a basso costo facevano   temere per l'identità stessa del distretto, tradizionalmente tarato su   un'altissima qualità.
  

                             «Il tempo ha dimostrato che l'estrema specializzazione e la   tradizionale vetrina lungo la strada non bastano più – spiega Paola   Zanotto, presidente legno-arredo del mandamento di Bassano per   Confartigianato Vicenza, con i tre fratelli alla guida della Zanotto   Elia Sna, fondata dal padre –. Molte aziende per sopravvivere hanno   preso la strada della diversificazione: chi ha iniziato con i   serramenti, chi ha voluto proporre un servizio, oltre al prodotto,   tramite studi di progettazione di interni. Nel nostro caso, abbiamo   scelto la personalizzazione su misura lasciando la massima libertà   creativa e di scelta al cliente, spaziando dalla cucina alla cameretta   dei bambini, e abbiamo puntato su una filiera ecosostenibile. Questo ci   ha aperto le porte di mercati molto sensibili all'ambiente».
  

  La domanda di mobili in stile viene oggi prevalentemente dall'estero:   l'ex Unione Sovietica, la stessa Romania, dove sono forti il culto   della casa e l'attenzione per il prodotto di qualità elevata. Le aziende   del Bassanese sono rimaste piccole, ma hanno dovuto imparare a essere   più che flessibili: «Quando arriva un ordine, occorre rispondere in   fretta: per una commessa abbiamo predisposto l'offerta in un week-end e   abbiamo consegnato in 20 giorni con l'aiuto di tutti i dipendenti»,   prosegue Zanotto. In realtà nelle quali la famiglia è l'impronta   distintiva, il passaggio generazionale non si esaurisce mai e c'è chi   sperimenta soluzioni innovative – come la presenza di un consulente   esterno – proprio per conciliare e mantenere in equilibrio le spinte e   le aspirazioni delle diverse componenti.



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Inviato 11 September 2012 - 21:03:00


Sassuolo, la ricetta vincente: innovazione e hi-tech



    sassuolo_ceramiche_258.jpg
      


Il sottile strato di sabbie, argille e feldspati si deposita sul   rullo e viene ingoiato dalla macchina. Duecentotrenta metri dopo diventa   una lastra di gres porcellanato spessa appena tre millimetri.
  

  La linea produttiva davanti a noi è un piccolo corso accelerato che   sintetizza i motivi del successo del distretto emiliano della ceramica,   forte di un centinaio di aziende e capace di resistere e addirittura   crescere pur in presenza di una concorrenza globale sempre più   agguerrita.
Lungo l'impianto di monocottura del gruppo Panaria, 293   milioni di ricavi e 1.600 addetti tra Italia, Stati Uniti e Portogallo,   lavorano solo tre persone per turno, al resto pensano le macchine,   rigorosamente made in Italy, qui come in tutto il comprensorio.
«Mai   venuto in mente di comprare altrove – spiega il titolare della Fincibec   Angelo Borelli, 80 milioni di ricavi con 435 addetti – ho appena   staccato un assegno da 450mila euro per un nuovo macchinario, sono   attrezzature che devono funzionare. Non scherziamo mica, il meglio della   tecnologia è proprio qui». E non per caso.
  

                             Tra Modena e Reggio Emilia, con il proprio cuore a Sassuolo, si è   sviluppato infatti il primo polo mondiale della ceramica, capace di   tirare la volata ad un'intera fliera a monte e a valle, dai macchinari   agli additivi, dalle stampanti hi-tech agli inchiostratori, dalla   componentistica meccanica ai collanti.
Vent'anni fa i produttori   diretti fatturavano 2,3 miliardi, oggi balzati a quota 3,8, dunque in   lieve crescita anche rispetto all'inflazione di periodo. L'arrivo della   Cina ha cambiato le regole del gioco, decuplicando la produzione   mondiale fino a sfiorare i 10 milioni di metri quadri. Uno shock che   avrebbe potuto distruggere la nostra capacità competitiva e che invece è   stato assorbito e metabolizzato. Il numero delle aziende, è vero, si è   più che dimezzato, ma questo è avvenuto non solo a causa delle chiusure   ma anche attraverso accorpamenti e acquisizioni.

  Come risultato, le dimensioni medie delle imprese dal 1992 ad oggi   sono praticamente raddoppiate, passando da 108 a 192 addetti, così come   più che raddoppiata è la produzione, arrivata oggi a quasi quattro   milioni di metri quadri per ogni realtà produttiva. In media, ciascuna   delle 82 aziende del distretto tra Modena e Reggio Emilia fattura 46   milioni, dimensioni inarrivabili per la maggior parte dei distretti   industriali italiani.
«E meno male – racconta il presidente di   Panaria Group Emilio Mussini – perché solo così è stato possibile   contrastare la concorrenza asiatica e continuare ad investire in   tecnologia d'avanguardia». Panaria, società quotata, ogni anno investe   in ricerca il 3% dei ricavi e ha seguito negli anni un percorso simile a   molte aziende del comprensorio: ridisegno dei processi produttivi,   recupero di produttività, specializzazione sempre più spinta degli   impianti per ridurre i costi unitari.



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Inviato 13 September 2012 - 18:55:47


L'opportunità turca per il polo dei frigo



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Ci vuole una giornata di caldo infernale per far capire ai casalesi   che ancora esiste un polo industriale del freddo che vuol battere nel   cuore di questa città di 36mila abitanti in provincia di Alessandria,   ancora ricca di storia e cultura e che vive una coesione sociale e una   voglia, intatta, di rimboccarsi sempre le maniche.
  

  Persino wikipedia immortala Casale come un importante centro per la   produzione del cemento – il gruppo Buzzi Unicem che occupa 11mila   persone tra 11 Paesi è di qua – e la ricorda per la presenza della   fabbrica Eternit ormai dismessa anche se rappresenta ancora una ferita   sanguinante per i cittadini. Della produzione dei frigoriferi – in   movimento, industriali, da vetrina e domestici – niente. Neppure una   citazione per una storia d'impresa che da oltre 40 anni è stata comunque   al servizio di marchi storici nazionali prima (Motta in primis) e delle   multinazionali poi, come Unilever e Nestlè.
Forse anche per questo,   il 6 luglio nella sala consiliare del Comune che sembrava una camera a   gas (non refrigerante) è andato in scena l'incontro che nel titolo aveva   un programa di rilancio industriale: «La formazione e l'innovazione   tecnologica per Casale capitale del freddo».
Per capire chi e come   formare e come e dove innovare bisognerebbe conoscere bene i numeri di   un distretto che appare ormai sempre più sfilacciato ma se chiedi in   giro quanti siano i sopravvissuti della "stagione del freddo", nessuno   sa darti una cifra esatta. «Ormai – dichiara Giuseppe Monighini del   Centro studi di Confindustria Alessandria – saranno rimaste una decina   di aziende per poco più di mille addetti e qualche altra realtà minore.   Non si può neppure definire un distretto ma un polo di produzione dove   sarebbe importante aumentare la collaborazione tra le imprese anzichè   prendere ciascuno la propria strada».
  

                                  Il paradosso, solo apparente, è che ai casalesi conviene sempre di   più conoscere i numeri di Smirne – terza città turca per numero di   abitanti con 3,5 milioni di persone – che i propri. Questa città della   Turchia centro-occidentale – che può mettere sul piatto della   concorrenza globale un minor costo del lavoro e il privilegio di   affacciarsi o comunque essere più vicina ai nuovi mercati mondiali – è   infatti la nuova capitale del freddo a cavallo tra l'Asia e l'Europa.   Conta oltre 80 grandi aziende di refrigerazione e, complessivamente, 450   realtà dell'industria del freddo collocate nel triangolo tra Smirne,   Manisa e Aydin. Numeri impensabili a Casale e che per questo aprono   scenari di cooperazione che non sfuggono nè al Comune che sta spingendo   l'acceleratore nè agli imprenditori e tantomeno all'associazione dei   tecnici del freddo (Atf), qui attivissima.





Parmigiano reggiano fra tradizione e hi-tech



casale_distretto_freddo_258.jpg





Il casaro è ancora lì che annusa l'aria per dosare il siero da   aggiungere al latte, gira la cagliata dentro la grande vasca in rame con   la pala in legno e la estrae dopo poco con la tela in canapa, per   mettere poi a riposare le forme prima della salatura a mano e della   stagionatura su tavole di legno. Come vent'anni fa. Come nove secoli fa.  

                             Sembrerebbe che il tempo si fosse cristallizzato in questo squarcio   di pianura emiliana, se non fosse che al posto degli antichi caselli   medievali ci sono caseifici moderni in cemento coperti da tetti   fotovoltaici, stalle coibentate e igienizzate, magazzini dove i robot   hanno sostituito l'uomo nella movimentazione a 20 metri d'altezza dei   preziosi cilindri marchiati a fuoco. Forme di Parmigiano reggiano, l'oro   giallo della food valley lungo il fiume Enza, tra Reggio Emilia e   Parma, già dal 1200, quando a produrlo erano monaci benedettini e   cistercensi, anche se risale a quattro secoli dopo il primo documento   ufficiale a tutela dell'origine, il progenitore della Dop europea   ottenuta nel 1996.
Una denominazione condivisa tra Parma e Reggio –   non senza contrasti, come tutti i matrimoni riusciti – e che sconfina a   Mantova, Modena e Bologna, su cui si è consolidato uno dei distretti   economicamente più stabili in Italia degli ultimi decenni: 3 milioni di   forme prodotte mediamente in un anno, con oscillazioni che nel 2011   hanno portato a raggiungere i 3,2 milioni di pezzi (in virtù del picco   di quotazioni, 11 euro al chilo alla produzione, contro i 9 euro del   2010 e i 7 del 2006), un giro d'affari al consumo di 1,9 miliardi di   euro e 20mila lavoratori coinvolti, dalle stalle (3.600 aziende), ai   caseifici (383) fino alle ditte specializzate in taglio e   confezionamento.
  

  Questi lingotti di formaggio a pasta dura, apprezzati come pegno per i   finanziamenti bancari, sono diventati uno dei simboli dell'eccellenza   alimentare made in Italy, nonché l'icona, oggi, della distruzione che il   sisma del 20 e 29 maggio scorso ha portato nel cuore agricolo e   industriale della via Emilia. Le immagini delle scalere di parmigiano   crollate a terra (630mila le forme compromesse e danni stimati in oltre   150 milioni) resteranno nella memoria visiva di tutti. Anche se ora   meriterebbe la stessa notorietà la catena di solidarietà che si è messa   in moto dentro e fuori il distretto per dare conforto a quel 20% del   comparto in ginocchio (si parla di 39 caseifici, 19 magazzini di   stagionatura e oltre 600 allevamenti coinvolti). «Non abbiamo chiesto   beneficenza – spiega Giuseppe Alai, da sei anni alla guida del Consorzio   di tutela, nato nel 1934 e unico consorzio in Italia a riunire tutti i   produttori di una Dop – ma una remunerazione per il nostro lavoro andato   in fumo: un euro ogni chilogrammo di formaggio venduto. In poche   settimane abbiamo già raccolto con questo meccanismo 4 milioni di euro   con cui iniziare a ricostruire gli impianti danneggiati».



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