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Il Nord Est passa le Alpi le aziende in fuga dai costi del sistema Italia


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#1 XCXC

XCXC

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Inviato 19 June 2012 - 21:13:35


Il Nord Est passa le Alpi le aziende in fuga dai costi del sistema Italia

SI ALLUNGA LA LISTA DI IMPRESE E IMPRENDITORI CHE VANNO ALL’ESTERO IN CERCA NON DI MINORI ONERI DEL LAVORO MA DI MAGGIORE EFFICIENZA DELLA BUROCRAZIA E MIGLIORI INFRASTRUTTURE. L’OPERA DI ATTRAZIONE DA PARTE DELLE AGENZIE STRANIERE
Alessandra Carini

Davide Canavesio, classe 1971, è presidente del gruppo giovani dell’Unione industriali di Torino. A 35 anni è rientrato in Italia per prendere le redini e tenere in Italia l’azienda del padre, il gruppo Saet, specializzato in trattamenti di induzione. Oggi guida un gruppo innovativo - 35 milioni di euro e 350 dipendenti sparsi in mezzo mondo - che, merce rara di questi tempi, ha avuto nel 2011 l’anno record della sua storia. Deve aprire un nuovo stabilimento per la produzione di macchinari per il silicio, circa 50 occupati. Bersagliato dalle offerte di Francia, Austria e Svizzera, ha commissionato al Politecnico di Torino un’indagine su dove gli conviene costruirlo. I primi risultati dello studio sono eloquenti: tra tassazione, rapidità e velocità di esecuzione, rapporto con le autorità locali, se decidesse di portarlo fuori dall’Italia guadagnerebbe, nei cinque anni del suo business plan, il 20%, di margine netto, 4% all’anno. «Non ho preso alcuna decisione - dice - ma cifre di questo genere, di questi tempi, fanno riflettere ». Dall’altra parte dell’Italia, a Nordest, c’è Nello Codognotto, amministratore delegato di General Membrane, 30 milioni di fatturato, un gruppo di successo cresciuto producendo guaine impermeabilizzanti e che adesso si è espanso anche nel fotovoltaico. Anche lui quando si è trattato di decidere dove investire ha commissionato alla Price Waterhouse uno studio comparato sulla fiscalità. Superfluo

riportare i risultati: «Certo ci sono il fisco e la burocrazia, ma c’è anche la semplice constatazione che ormai si deve andare dove c’è mercato». Insomma l’Italia con il suo Pil che oscilla intorno a zero e i suoi consumi in discesa da anni non è più una prospettiva allettante per chi vuole investire. Da alcuni mesi tutte le Regioni industrializzate del Nord sono bersaglio di una martellante “propaganda” dei territori di confine che invita le aziende a collocare oltralpe eventuali iniziative industriali. Francia, Austria, Serbia e tutto l’est, perfino il lontano Texas della resurrezione manifatturiera propagandata da Obama, hanno mobilitato agenzie specializzate e uomini per convincere gli industriali a investire da loro. Non è una novità. Anche a fine anni Novanta, la Life, antesignana del boom della Lega, portava gli industriali con i bus a Klagenfurt per convincerli a collocare lì i nuovi impianti e a mettere nelle banche austriache i risparmi. E sono molte le grandi aziende che già si erano spostate prima della grande crisi: dalla friulana Danieli alla Europlast di Battipaglia, dalla Bonazzi alla Fantoni. La novità di oggi non è tanto nelle offerte allettanti dei territori. E’ nella risposta che questa sta riscontrando. A inizio maggio, a Villa Braida, un resort palladiano perso nella campagna nordestina, uno dei tanti appuntamenti organizzati dall’Austria e dalla Carinzia per pubblicizzare il loro territorio, si è trasformato in una sorta di manifestazione del malessere imprenditoriale e della voglia di molti piccoli industriali di cercare fuori dall’Italia soluzioni alla crisi. Sono arrivati quattrocento imprenditori dal Veneto fino all’Emilia, una risposta inaspettata per gli organizzatori costretti in fretta e furia ad adeguare schermi, saloni e buffet. In un silenzio punteggiato da applausi hanno ascoltato le sirene di chi gli prospettava il Paradiso a sole due ore e mezza dall’Italia. Burocrazia zero o quasi: sette giorni per una concessione edilizia, 80 per un impianto industriale. Fisco clemente con gli utili e sui salari dei dipendenti, nessuna Irap nel conto delle tasse. Flessibilità del lavoro che permette di licenziare con un preavviso di sei settimane. E, se non bastasse, finanziamenti fino al 25% dei costi a chi decide di investire, sgravi sulla ricerca. In centinaia sono andati a vedere. Una pattuglia potenziale che si aggiunge al “bottino” incassato in questi anni: in Austria ci sono 1100 imprese italiane che hanno investito 26 miliardi facendo dell’Italia la seconda presenza dopo la Germania. Dice Marion Biber, direttore per l’Italia di Aba, l’ente che fa capo al ministero per l’Economia che promuove gli investimenti in Austria: «Nei primi quattro mesi dell’anno avevamo 40 richieste di informazioni in media al mese, adesso sono raddoppiate. Sono per lo più aziende che cercano, oltre a condizioni più convenienti, soprattutto certezze legali e stabilità delle norme fiscali per i loro business plan». Tra chi viene ad ascoltare molti industriali che oggi manifestano la loro delusione: «Voglio lavorare in un Paese onesto dove la politica non vacilli e favorisca invece lo sviluppo», dice Maurizio Keber, produttore di macchine per il caffè a Mira, che non esclude l’idea di fare un nuovo investimento in Carinzia, così come tre giovani - Davide Guiotto, Massimo Ceolato e Massimiliano Nordio - che sono decisi ad avviare oltreconfine un’attività informatica: «La soglia è solo psicologica, qui i giovani non possono essere ottimisti». Certo non sarà tutto oro quel che luccica e molte iniziative poi non andranno in porto: «Non è ancora un fenomeno di massa, sono per lo più singoli casi», dice Alessandro Vardanega, presidente degli industriali trevigiani che confessa, però, che l’angoscia da spread, che fa costare il denaro il 4% in più di quanto costi a un tedesco, e la burocrazia minacciano di tagliare le poche speranze di questi anni bui. «A Mogliano Veneto si è inaugurato in questi giorni un magazzino logistico e sa quanto tempo ci è voluto per mandarlo in porto? Dodici anni». E’ un campanello di allarme che suona ormai invano da troppo tempo. E che dall’industria minaccia di estendersi anche ai servizi. Matteo Ferrazzi, economista di Uni-Credit, insieme al giornalista Matteo Tacconi, hanno dato alle stampe un libro che esce in questi giorni sulla “emigrazione” e sulle storie e i numeri degli imprenditori partiti dall’Italia per l’Est Europa: dalla Polonia alla Repubblica Ceca, dalla Romania alla Moldova (“Me ne vado a Est. Imprenditori e cittadini italiani nell’Europa ex comuni-sta”, Edizioni Infinito). «Migliaia di imprese sono presenti a est, quattro volte di più di quelle che sono andate in Cina e per due terzi sono nel settore dei servizi: dai medici ai commercialisti e ai consulenti, dalle banche alle assicurazioni e alla logistica», dice Ferrazzi. Le ragioni sono molteplici, spiega. L’Italia è un Paese che non cresce, c’è la voglia di conquistare nuovi mercati, ma anche la difficoltà di fare impresa in Italia. «Tutti gli indici internazionali, che siano quelli sulla competitività, sulla facilità a fare affari, o sulla trasparenza, cioè sulla corruzione, ci vedono in posizioni di retroguardia rispetto ad altri paesi europei. Da noi la pubblicazione di questi dati è un articolo di giornale, nei Paesi dell’est sono tema di acceso dibattito governativo», dice Ferrazzi. E alcuni Paesi anche a est, fanno suonare le loro sirene. La Serbia, ad esempio, che assicura incentivi stratosferici di fronte ai quali nessun Paese europeo può competere. Incentivi che hanno spinto dalla Fiat ai suoi fornitori dalla Golden Lady alla Calzedonia a costruire qui i loro impianti aggiungendo convenienza ad una situazione di difficoltà di fare impresa in Italia. Di fronte alla resistenza a cambiare imprenditori italiani ed esteri, piccoli e grandi, hanno deciso di votare così “con i piedi” cioè investendo altrove e non solo per le ragioni di un naturale processo di internazionalizzazione. Se si prendono i dati globali si scopre che le imprese italiane all’estero sono cresciute del 23% (quasi il 28% in Est Europa) gli investimenti stranieri in Italia sono diminuiti dell’1%. Nel 2011 gli investimenti diretti di aziende straniere sono crollati del 53%. Dietro queste cifre ci sono storie di ordinaria follia burocratica e di insipienza amministrativa. Dalla British Gas che va via da Brindisi dopo 12 anni di permessi negati per il rigassificatore, all’Ikea dalle iniziative bloccate dalle Regioni, alla Maersk che salpa da Gioia Tauro: tra gli uni e gli altri il censimento del Nimby (Not In My Backyard) Forum ha calcolato 331 grandi impianti arenati per problemi legali o comitati. Ci sono però anche piccole iniziative che gettano la spugna. Come quella promessa dalle Siliconature Spa di Godega di Sant’Urbano, in Provincia di Treviso: l’ampliamento di uno stabilimento da 25 milioni di euro bloccato da un comitato di pochi cittadini e dal sindaco della Lega. Tra discussioni, analisi che certificano la regolarità arrivate dopo mesi e polemiche, l’imprenditore, Gino Dal Mas, ha deciso di costruirlo in Cina. Quaranta posti di lavoro persi, in un’Italia che, anche nel Nordest, comincia ad esserne affamata. Qui sopra, lo stemma della Carinzia. In alto, un’immagine della Hauptplatz di Friesach, una tipica cittadina carinziana

(18 giugno 2012)



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#2 sergio3

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Inviato 20 June 2012 - 04:21:46


Si va sempre più velocemente verso un'Europa  delle Regioni e il Nord fa parte della Mittel Europa--  Miglio (il Professore) lo ha insegnato 20 anni fa'--



Io non mi sento italiano, voglio resistere e insorgere


#3 Carlo

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Inviato 20 June 2012 - 11:47:55


Visualizza messaggiosergio3, su 20-Jun-2012 04:21, dice:

Si va sempre più velocemente verso un'Europa  delle Regioni e il Nord fa parte della Mittel Europa--  Miglio (il Professore) lo ha insegnato 20 anni fa'--

Occhio ai prof ... :(
Comunque, al di la di tutto, quello che ammiro è la tua tenacia nel credere in
queste teorie ... in questo caso io sono agnostico ...




#4 cemento

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Inviato 20 June 2012 - 13:11:15


Visualizza messaggiosergio3, su 20-Jun-2012 05:21, dice:

  Miglio (il Professore) lo ha insegnato 20 anni fa'--

Si infatti il tuo capo......gli ha dato 4 calci in cul...o   :24:  :24:


#5 sergio3

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Inviato 20 June 2012 - 14:14:12


Bossi è sempre stato uno che non ha mai accettato chi ne sapeva più di lui (poveretto) e anche adesso continua a parlare e fa danno (dietro ha sempre la moglie sicula che rovina tutto)



Io non mi sento italiano, voglio resistere e insorgere


#6 XCXC

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Inviato 21 June 2012 - 18:20:11


«Chi va in Carinzia è esasperato
Ma ora si apre il fronte Serbia»

  
Delocalizzazione, l’effetto Fiat e l’attrazione dei mercati.   L'economista: fisco e burocrazia contano, ma il business è più   importante
  


VENEZIA — Di Cina e di imprese   che hanno delocalizzato nel Far East se n’è parlato per anni,   trascurando il fatto che, nel frattempo, le aziende italiane insediate   nella vicina Europa dell’Est, a poche ore di automobile, sono aumentate   fino a diventare quattro volte le prime. Ne parla, in un libro   intitolato «Me ne vado a Est», l'economista di Unicredit di origini   venete Matteo Ferrazzi, assieme al giornalista Matteo Tacconi, edito da   «Infinito Edizioni» di Roma. «Importiamo dall’Europa orientale tre volte   e mezzo quello che importiamo dalla Cina - spiega Ferrazzi - ed   esportiamo a Est un flusso di merci otto volte superiore a quello   diretto verso il Dragone. Le aziende italiane con più di 2,5 milioni di   euro di fatturato attive in questa area sono 4.000 e rappresentano un   quinto della presenza imprenditoriale italiana nel mondo. Ovviamente il   Nordest e il Veneto, data la vicinanza geografica, sono i primi   territori di provenienza ».
Ferrazzi,   in queste settimane il Veneto è terra di scorribande di emissari di   Paesi vicini - l’ultima in ordine di tempo è la Carinzia - che cercano   di indurre le nostre aziende ad investire a casa loro, facendo leva   sulle migliori condizioni di clima imprenditoriale connesse a questioni   di burocrazia, fisco e giustizia. «Burocrazia e tasse contano   tantissimo, l’Italia non fa certo una figura eccelsa per infrastrutture,   educazione, burocrazia, corruzione e questo chiaramente incide. Ma la   motivazione principale è la ricerca di nuovi mercati. Qui ce ne   accorgiamo a cose fatte, quando vediamo il picchetto degli operai   davanti alle fabbriche. In realtà bisogna sempre pensare che il processo   che ha portato a quel punto è iniziato almeno quattro o cinque anni   prima».
C’è differenza fra l’Est europeo e gli altri Paesi confinanti? «Credo   che ad un posto come la Carinzia pensi soltanto chi è esasperato   dall’Italia. Fa poca strada e prova a vedere come va. Invece l’area ad   esempio balcanica ha tutta un’altra valenza, esistono persino   imprenditori anziani un po’ romantici che cercano in queste zone il   clima dell’Italia di 30-40 anni fa, quando da costruire c’era ancora   moltissimo».
In questo momento qual è il Paese che, a suo giudizio, rappresenta l’epicentro di attrazione per le imprese nordestine? «Non   ho difficoltà nell’indicare la Serbia e questo per una ragione molto   semplice: l’insediamento Fiat sta già richiamando dal Piemonte decine di   aziende dell’automotive ed il flusso rastrellerà entro due o tre anni   anche quelle del triveneto collegate a vario titolo a questo tipo di   filiera. Va detto che in Serbia, come un po’ in tutte le repubbliche   "recenti" nate dal disfacimento dello stato jugoslavo, ci stanno   mettendo i tappeti rossi in termini di agevolazioni fiscali ed incentivi   di ogni tipo. Però, come ho detto prima, incoraggiamenti o meno, il   fattore decisivo è la presenza di un mercato in crescita. Teniamo   presente, ad esempio, che oggi un quarto delle automobili prodotte in   Europa giungono dall’area orientale, mentre 10 anni fa la stessa quota   non arrivava al 10%».
Automobili a parte, quali altri comparti possono essere interessanti per i produttori del Nordest? «Tutto   ciò che ha a che fare con le macchine e con la tecnologia di alto   livello. Noi crediamo, ad esempio, che l’eccellenza in elettronica abbia   come capitale il lontano Oriente ma oggi la grande maggioranza degli   schermi piatti sono fabbricati in Moldova. E poi funzionano benissimo i   mobili, gli alimentari ed i beni di lusso del Made in Italy per una   classe media che si sta progressivamente arricchendo. Da dimenticare   senza riserve, invece, il tessile».





  Gianni Favero

  20 giugno 2012



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