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Il Catalogo dei viventi


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Inviato 31 October 2006 - 16:37:54


1806 PAGINE, 5062 TRA BIO E “ODIOGRAFIE”, UNA INCARCIOFATA DI “ITALIANI NOTEVOLI”
“LA REPUBBLICA” DI SCALFARI SALVATA DAI BR – LA PIVETTI TIENE UNA PISTOLA IN CASA
BERLUSCONI: COME COMPORTARSI CON I CLIENTI STRONZI - L'OCCHIO DELL’ANNUNZIATA


Immagine inviata




"Il Catalogo dei viventi", scritto da Giorgio Dell'Arti e Massimo Parrini, è un imperdibile e sfacciato volumone di 1806 pagine per 34 euro che sarà in vendita da giovedì (è prevista addirittura una conferenza stampa alla libreria Rizzoli di piazza del Duomo a Milano). Dentro ci sono 5.062 tra biografie e “odiografie” di italiani contemporanei viventi (la Fallaci e Facchetti sono stati tolti di corsa all'ultimo momento, per Lauzi, Pontecorvo, il cardinal Pompedda e gli altri morti dopo il 30 settembre non s'è fatto in tempo e ci sono ancora). Si comincia con Abatantuono e si finisce con Zuzzurro, dentro ci sono tutti: cantanti, politici, economisti, potenti, p*****e, preti, giornalisti e via sfaciolando. Il testo integrale della voce Scalfari, con l'affermazione che Eugenio è stato il più grande del secolo e la ricostruzione di tutte le astuzie messe in campo per far grande Repubblica. Ecco, in anteprima assoluta su Dagospia, alcuni italiani notevoli:
Immagine inviata
1 – “LA REPUBBLICA” DI SCALFARI ANDÒ MALE I PRIMI DUE ANNI E SI STAVA PER CHIUDERLO QUANDO MORO FU RAPITO
"Scalfari Eugenio - Civitavecchia (Roma) 6 aprile 1924 - È il più grande giornalista italiano del Novecento: ha partecipato da protagonista alla fondazione dell'Espresso (con Arrigo Benedetti e Carlo Caracciolo), ha creato dal nulla un quotidiano, la Repubblica, del tutto nuovo per linguaggio e formato (i precedenti esperimenti col tabloid in Italia erano stati dei disastri).

L'influenza esercitata da Scalfari e da Repubblica non solo sul giornalismo, ma anche sulla politica, sulla cultura e sul costume italiano sono tali che si può prendere il 14 gennaio 1976 - primo numero del giornale - come una data ante quem e post quem scrivere la storia del nostro dopoguerra.
Immagine inviata (Carletto Caracciolo con Eugenio Scalfari - U.Pizzi)
I capitali furono messi da Carlo Caracciolo, editore dell'Espresso, dalla Mondadori (che aveva il 50 percento), dallo stesso Scalfari (poco più del 10 percento), da un piccolo nucleo di soci minori. La storia precedente di Scalfari era molto semplice: aveva diretto l'Espresso, aveva firmato con Lino Jannuzzi un'inchiesta clamorosa sul Sifar, il piano Solo e le mire golpiste del generale De Lorenzo (querelati tutti e due, condannati a 15 e 14 mesi di reclusione benché il pm Vittorio Occorsio, che aveva letto i fascicoli prima che il governo li secretasse, avesse chiesto l'assoluzione), aveva pubblicato con Giuseppe Turani un saggio capitale sui poteri di quegli anni (Razza padrona, Feltrinelli 74: storia della borghesia di Stato, attraverso le enormi ricchezze parassitarie accumulate con la nazionalizzazione dell'energia elettrica, e fino a Cefis. L'espressione "razza padrona" era entrata nel linguaggio comune), era stato prima consigliere comunale a Milano (1963) e poi deputato del Psi in Parlamento (elezioni del 1968).

Craxi aveva manovrato per sabotarne la rielezione e da allora dato l'odio implacabile tra i due, un odio che superava le guerre interne al Psi e aveva qualcosa di fisico, fino al punto che qualcuno diceva provassero ripugnanza uno per l'altro.

Scalfari era affamato di potere. Fondò Repubblica dicendo che voleva dar voce alle classi produttrici del paese, gli imprenditori e i lavoratori, contro le classi parassitarie che - evidentemente - votavano Dc. Mistica dell'eleganza, del calzino lungo, della upper class democratica oppure - secondo l'espressione dei nemici - capofila dei radical chic, seduttore delle dame rosse che si facevano belle della loro larghezza di vedute continuando a frequentare i salotti dei padroni e andando in vacanza a Cortina e a Saint-Tropez. In ogni caso, Scalfari pensava a un giornale d'élite, che fosse comprato per secondo, senza la cronaca ("niente vecchiette sotto il tram"), senza lo sport. Poche pagine, molti commenti, idee, chicche e possibilmente "cose che non hanno gli altri". Mise in circolo fin dal primo numero l'espressione "palazzo", diventata anche questa lingua comune, per indicare l'insieme delle persone che contano. Siccome non s'intendeva affatto di quotidiani, credette che circondando di ragazzini un gruppo di grandi firme (Sandro Viola, Fausto De Luca, Bocca, Aspesi, la Mafai, Peppino Turani, Terzani) e qualche instancabile c**o di pietra (Gianni Rocca) si sarebbe fatto il prodotto che diceva lui, e magari a basso costo.
Immagine inviata (Bettino Craxi e Silvio Berlusconi)
Politicamente si collocava in un'area sterminata che cominciava dai repubblicani e finiva con gli autonomi, cioè i lembi non clandestini del brigatismo. La sua origine di settimanalista portava però nel mondo spento dei quotidiani una propensione al retroscena, alla prospettiva, al passo lungo che i quotidianisti non avevano, un piglio diverso nelle interviste, una sapienza grafica, una cultura fotografica (anche se ancora invisibile perché all'inizio, di foto, Repubblica ne aveva davvero poche). La conoscenza dell'economia - in un mondo di professionisti, da questo punto di vista, quasi del tutto analfabeti - illuminava le informazioni di una luce completamente nuova, anche se Scalfari ne sapeva forse troppo: a suo tempo la presidenza del Consiglio gli aveva bloccato una rubrica di commento sulla Borsa che teneva in televisione, perché gli operatori avevano protestato sostenendo che influenzava i corsi.

Le grandi relazioni potevano garantire - e avrebbero garantito - un flusso di informazioni riservate da far invidia a un servizio segreto. Scalfari, al tavolo della riunione mattutina, faceva sentire la voce di questi suoi informatori: per esempio il presidente della Repubblica Pertini, o il presidente del Consiglio Cossiga o Forlani o Spadolini o soprattutto De Mita, Enrico Cuccia, ministri a iosa, notabili democristiani come Bisaglia o Franco Evangelisti - che cominciava sempre con un "ciao Eugè" - i capi dei sindacati, i capi delle industrie e, insomma, tutto il potere dispiegato che non vedeva l'ora di parlargli.

Premendo un tasto del telefono, Scalfari ne faceva risuonare le voci nella stanza dove i redattori ascoltavano rapiti e in perfetto silenzio perché l'interlocutore dall'altra parte non capisse di non essere solo. La riunione - un rito su cui si è giustamente e a lungo favoleggiato - cominciava alle dieci e mezza del mattino e finiva dopo l'una. All'inizio, cappuccino e cornetto per tutti, poi analisi critica del giornale e discussione che poteva finire su qualunque argomento, molto libera, anzi - con una parola adorata da Scalfari - molto "libertina".
Immagine inviata (Francesco Cossiga e Aldo Moro - U.Pizzi)
Usare la parola "dirigere" per quel direttore è poco. Scalfari era tra l'altro un bellissimo uomo, alto, dritto, la barba bianca, la voce suadente e certe volte addirittura cantante. I redattori - senza distinzioni di sesso o di età - ne erano, più che sedotti, soggiogati. Il giornale andò male i primi due anni e si stava per chiuderlo quando Moro fu rapito e le Brigate rosse scelsero Repubblica come veicolo della loro comunicazione. La prima foto Br faceva vedere Moro prigioniero che teneva in mano Repubblica. Scalfari, profittando della contemporanea crisi di Paese sera (che agli occhi dei giovani di sinistra aveva perso ogni credibilità, essendo definito ormai con la qualifica spregiativa di "piciìsta"), imbarcò così il pubblico simpatizzante dei movimenti o comunque di sinistra, ma stufo del grigiore del Pci.

Repubblica profittò poi della crisi di copie e credibilità dell'Unità e mise nel suo lettorato un'importante quota di comunisti. Infine il Corriere della Sera (siamo nel 1981) fu scoperto come propaggine della P2 e Scalfari (a cui era stata persino offerta una quota di quel giornale e l'avrebbe presa se la redazione non si fosse sollevata contro quel tipo di partnership) ci diede dentro con i valori della democrazia e la difesa delle istituzioni repubblicane, e portò a casa perciò una bella fetta di pubblico borghese, benpensante, moderato nella sostanza, e moderno nell'apparenza.

Tra l'altro Repubblica, così nuova, così diversa, faceva trend ed era assai elegante averla sotto il braccio, un vero prodotto di potere e di contropotere. Alla fine del 1981, con il giornale ampiamente sopra le 200 mila copie, il problema economico era alle spalle Intanto Scalfari, esercitando la sua dote migliore, cioè l'attitudine al libertinaggio, ne aveva fatto un prodotto mai visto in Italia, un giornale-opera d'arte. La cultura al centro, bloccata su due pagine (il famoso "paginone" di Rosellina Balbi), il fatto del giorno - fosse di Interni, Esteri o Spettacoli - piazzato in due-tre per dare luce a tutto il giornale, la 5 come pagina di snodo tra l'avvio e la zona di riposo successiva, la 6 per i commenti con la vignetta di Forattini al centro (aveva già fatto a Paese sera il Fanfani in forma di tappo, ma fece a Repubblica lo scandaloso Berlinguer in pantofole).

Scalfari capì presto che non si poteva sfuggire ai fatti, che la cronaca e lo sport ci volevano, che tanto valeva puntare a essere non il secondo giornale, ma il primo. E quindi: reclutamento di grandi firme, soprattutto di quelle che fuggivano dal Corriere piduista. Pansa, Ronchey, Cavallari, Biagi, Arbasino, (invano corteggiò Stille, che accoglieva in redazione esponendo cartelli di benvenuto). Intanto Repubblica aveva imposto un nuovo modo di titolare, un nuovo modo di raccontare lo sport (grazie al lavoro di Mario Sconcerti che fece venire Brera, Gianni Clerici e Mario Fossati, e inventò Mura e la Audisio), un nuovo modo di porsi di fronte alla politica, che imparò presto che Scalfari andava trattato non come un giornalista qualunque da irregimentare ma come un capo-partito, con cui si doveva scendere a patti.

Scalfari lo sapeva, era quello che voleva, e faceva politica dalla mattina alla sera, cioè pilotava con sicurezza il giornale in un mare che era legittimo chiamare "aperto", cioè non soggiogato meschinamente alle segreterie dei partiti, per niente vincolato ai piccoli cabotaggi dei capibastone con cui si facevano e si fanno i conti tutti i giorni. È memorabile, quanto alla forma, la sua pretesa che il giornale fosse bello, le pagine armoniose, i titoli come versi, le notizie vicine coerenti una con l'altra. E, quanto alla sostanza, che i problemi venissero legati ai fatti e i fatti avvinti a un personaggio.
Immagine inviata (Agnelli & Scalfari)
Molte volte - ma davvero molte - lo si è visto buttare via la pubblicità, con gran sgomento della Manzoni che gliela vendeva, e giustificarsi con queste quattro parole: "Mi lorda il giornale". Nel 1986, quando Repubblica cominciò ad allegare fascicoli creando così un nuovo mercato (di fascicoli in edicola, a quel tempo, non c'era neanche l'ombra), superò il Corriere e divenne finalmente il primo. Al Corriere, che fece uscire Sette il 12 settembre 1987, rispose col Venerdì, mandato in edicola il 30 ottobre. Si ragionava ormai in termini di centinaia di migliaia di copie, di miliardi e miliardi di fatturato pubblicitario e di giornali che potevano pesare anche un chilo.

Al di là di tutto, la spiegazione del successo di Repubblica era semplice: il giornale non aveva padroni, nel senso che i due azionisti (Mondadori e l'Espresso) erano editori, non avevano da riscuotere o da pagare pedaggi particolari alla classe politica in altri settori dell'economia ed erano soggiogati anche loro dalla personalità dell'uomo, al cui volere e potere si inchinavano sempre. Scalfari aggiungeva volentieri che una delle ragioni della forza di quell'impresa stava nelle sue dimensioni contenute, un fortino munitissimo e inespugnabile dalle corazzate che incrociavano al largo (cioè la grande industria) perché non aveva porte che ne consentissero l'ingresso.

Nella battaglia tra Berlusconi e De Benedetti (finita nel 1991: vedi anche alla voce CIARRAPICO Giuseppe), si schierò fin dal primo istante con De Benedetti. Partecipava con gioia da tifoso alla sua incetta di Mondadori privilegiate, e nominava Luca Formenton con quella certa piega delle labbra che designava i portatori (spiritualmente parlando) di calzini corti. Dopo il lodo Ciarrapico, vendette anche lui il suo dieci per cento e incassò una cifra mai accertata, ma che la voce comune indica in cento miliardi di lire. L'ultimo giorno radunò la redazione e spiegò che la metafora del fortino doveva considerarsi sbagliata. Disse proprio: "Mi sono sbagliato". Non di fortino si doveva parlare, ma di capanna. Una capanna circondata da grattacieli, che lo sviluppo della città avrebbe inevitabilmente spazzato via.

Vendere era stato perciò un atto di prudenza e saggezza, che garantiva per il futuro la stessa libertà di cui il giornale aveva goduto in passato. La redazione accolse il discorso con un silenzio assoluto e Scalfari, alzandosi in piedi e stirandosi leggermente i fianchi, chiese sottovoce al fido Gianni Rocca: "Come mai non applaudono?".
Immagine inviata (Assunta Almirante e Peppino Ciarrapico - U.Pizzi)
2 - CIARRAPICO: HO FATTO DA PACIERE TRA BERLUSCONI E DE BENEDETTI PORTANDOMI DIETRO SOLO UN QUADERNO A QUADRETTI.
Alla voce Ciarrapico si legge, relativamente al famoso lodo Mondadori: "Venne Passera e aveva un camion di documenti, io gli dissi che m'ero portato dietro solo un quaderno a quadretti e che mi proponevo di adoperare una sola pagina, su cui avrei tracciato una linea verticale, come si fa a carte quando si devono segnare i punti, in cima allo spazio di sinistra avrei scritto De Benedetti, e sotto quello che chiedeva, in cima a quello di destra Berlusconi, e idem". Con quel sistema Ciarrapico mise tutti d'accordo.

3 - A QUANDO UN INTER-BRESCIA CHE PORTI SUI CAMPI DI CALCIO LA GUERRA TRA UNICREDIT E INTESA?
Ogni volta che è possibile il Catalogo riporta le passioni sportive dei vip che fanno parte dell'elenco. Per esempio di Camilleri si racconta che s'innamorò del calcio a tal punto da decidere di non guardare più le partite per non essere distolto da cose più importanti, di Fassino che non solo è juventino, ma che Boniperti a un certo punto gli offrì la presidenza della società (e il Pci torinese dopo una discussione molto accesa decise che non si poteva fare), che Bazoli è un patito del Brescia e difese la scelta suicida di Corioni di licenziare Maran e chiamare Zeman, mentre l'altro grande banchiere, Profumo, è acceso sostenitore dell'Inter, al punto che quando la squadra perde è meglio non rivolgergli la parola il lunedì mattina.
Immagine inviata (Super Pivetti con il fusto-nudo Costantino - da il Corriere della Sera)
4 - PERCHE' IRENE PIVETTI TIENE UNA PISTOLA IN CASA?
Alla voce Pivetti, si legge che la ex presidente della Camera tiene in casa una pistola. Come mai? Il catalogo non lo spiega. Altra patita di armi e addirittura frequentatrice del Poligono è Daniela Fini. Della quale il Catalogo racconta l'intensa storia d'amore col famoso Fologorino, il legionario picchiatore mandato a un certo punto al confino in Sardegna. A quel tempo lei faceva la tastierista al Secolo d'Italia e del marito Folgorino s'era bell'e stufata. Al punto che aveva cominciato a uscire col giovane Fini. Ma i camerati di Folgorino, indignati, aspettarono una sera Fini sotto casa sua al Gianicolo e lo gonfiarono di botte. Il segretario di An ha per questo il naso un po' storto…

5 - LA STORIA DELL'OCCHIO DI LUCIA ANNUNZIATA
Alla voce Annunziata Lucia, leggiamo: Figlia di ferroviere. "Mi vergognavo della mia casa popolare coi panni stesi. "Sei una piccola borghese", mi diceva papà, sindacalista comunista delle Ffss". Il papà la portava tutte le mattine all'asilo, in treno, affidandola a un collega di Avellino Scalo. Un giorno nevicava e per non farle bagnare le scarpine Lucia venne provvisoriamente deposta sulla carta di un quotidiano. E qui si scoprì che la piccola sapeva leggere: aveva imparato da sola. "Uno dei miei ricordi più lontani è stato il 1956. Avevo sei anni, abitavamo in un casello ferroviario in Irpinia, mio padre ascoltava alla radio la storia, le notizie della repressione ungherese e fumava nervosamente in cucina. La mia educazione politica è stata vivere tra passioni e tormenti. Come tutti i comunisti, era un uomo tormentato ma non gli piaceva lo stalinismo, non gli piacque l'invasione di Praga, però viveva in Italia. Quando avevo un anno ed abitavamo in Irpinia, un fulmine ha colpito la casa e s'è propagato attraverso tutti i locali e una scheggia di fulmine mi ha colpito un occhio, bruciandolo per sempre. Vivere con un solo occhio ti abitua a un controllo delle tue risorse. Si è più attenti a quello che si fa".
Immagine inviata (Lucia Annunziata - U.Pizzi)
6 - BERLUSCONI INSEGNAVA AI SUOI VENDITORI COME COMPORTARSI CON I CLIENTI STRONZI
Tra le mille notizie relative all'ex premier c'è anche la riproduzione testuale dei consigli di Berlusconi alla sua forza vendita relativi al "cliente st****o":

"I clienti stronzi sono quelli che si devono conquistare a tutti i costi, sono i clienti che non dobbiamo assolutamente lasciarci scappare, quelli sono i clienti che dobbiamo assolutamente raggiungere prima degli altri. Perché questi si alzano e tutte le mattine, guardandosi allo specchio, che cosa vedono? Vedono uno st****o. Giorno dopo giorno, mattina dopo mattina, quello specchio riflette la stessa, drammatica immagine. E quindi i signori che appartengono disgraziatamente a questa categoria si incazzano immediatamente e restano incazzati per tutto il giorno.

Questi uomini vengono sempre trattati da stronzi, tutti li trattano da stronzi, perché logicamente, essendo tali, vanno trattati così. Però, fate attenzione, perché dovete entrare in campo voi, con la vostra arte e le vostre astuzie. Siccome lo st****o viene trattato da tutti come uno st****o, se trova invece qualcuno che lo tratta in maniera diversa gli sarà grato, anzi gratissimo, per sempre. Sarà disponibile, sarà aperto, sarà cordiale, sarà gentile, sarà riconoscente, insomma sarà meno st****o. E quindi abbiamo anche reso un servigio all'umanità, l'abbiamo alleggerita. Quindi bisogna conquistare questi clienti principalmente perché diventeranno gli amici più sinceri, i clienti più preziosi, in quanto vi saranno per sempre grati e riconoscenti"

Il Catalogo, riprendendo l'opinione di altri commentatori, ritiene che descrivendo il cliente st****o Berlusconi avesse in mente soprattutto Craxi.


Dagospia 30 Ottobre 2006





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