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In Transnistria, camere con vista sull'ultima oasi del leninismo - Eastwest


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Inviato 30 September 2017 - 09:50:03



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In Transnistria, camere con vista sull'ultima oasi del leninismo
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Siamo a Tiraspol, capitale della Transnistria, regione separatista della Moldavia, meglio conosciuta come il “Paese sovietico che non esiste”. Con un gruppo di amici, Dmitri ha deciso di aprire due ostelli:oltre al Red Star, alla periferia della ...




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Inviato 01 October 2017 - 21:59:17


Open doors moldavia ucraina russia Unione Europea
In Transnistria, camere con vista sull’ultima oasi del leninismo

Nella regione separatista della Moldavia, la nostalgia per l’Urss genera buoni affari. Il socialismo reale però ormai è alle spalle. E le necessità dell’export avvicinano l’entità filo-russa e la Ue. Ponendo così le basi per la fine di lungo conflitto congelato.
Testo e foto di Martina Napolitano, Marco Carlone e Simone Benazzo Sabato, 30 Settembre 2017 Immagine inviata  

Tiraspol, capitale della Transnistra. Foto di Martina Napolitano, Marco Carlone e Simone Benazzo


Tiraspol - Dieci anni in una ONG, poi una nuova vita. “Ho gli stessi ideali di allora, solo li perseguo in maniera diversa”, precisa Dmitri, nella veranda del suo Red Star Hostel, una casetta ristrutturata con giardino, cucina al pianterreno e due letti a castello nel soppalco. Aldilà del muro scorre il Dnestr. Siamo a Tiraspol, capitale della Transnistria, regione separatista della Moldavia, meglio conosciuta come il “Paese sovietico che non esiste”. Con un gruppo di amici, Dmitri ha deciso di aprire due ostelli:oltre al Red Star, alla periferia della capitale, gestiscono il Lenin Street Hostel, che prende il nome dalla centralissima Strada Lenin, tagliata perpendicolarmente da Strada Karl Marx e Strada 25 Ottobre, nonché parallela di Boulevard Gagarin. A prima vista, un posto paradossale per iniziare un business, buttarsi nel turismo con un’attività privata.


Immagine inviata


Interno del Red Star Hostel, Tiraspol, capitale della Transnistra. Foto di Martina Napolitano, Marco Carlone e Simone Benazzo



Ma la Transnistria non è più uno stato canaglia, un buco nero alla periferia d’Europa. I viaggiatori di passaggio nella terra degli “ultimi sovietici” descrivono un Paese che veleggia ormai stabilmente verso l’economia di mercato, dove del socialismo è rimasta soltanto un po’ di nostalgia. Continua Dmitri: “Lo Stato è in rosso, non può aiutare gli indigenti. Con il progetto degli ostelli, proviamo a fare welfare dal basso. Destiniamo il 25% dei guadagni ai senzatetto, principalmente per vestiti, cibo, documenti”. Una specie di impresa sociale, il privato che si affianca allo Stato, e gradualmente lo sostituisce. Qui, nell’ultima oasi del leninismo, i tempi sono cambiati.
Sono passati solo due anni da quando ha aperto i battenti, ma Dmitri è già una celebrità per chi arriva in Transnistria. Gli stranieri che approdano a Tiraspol quasi sempre finiscono da lui: il Red Star e il Lenin Street sono gli unici due ostelli della città che si trovano su booking.com, ricorda il titolare, con un cenno di fierezza nello sguardo. Ma chi viene in questa striscia di terra non riconosciuta tra Moldavia e Ucraina? La fauna turistica che è passata per gli ostelli di Dmitri è composita: backpacker, volontari, missionari, giornalisti, piloti, camionisti. C’è, comunque, una categoria più determinata: i nostalgici. “Spesso sono membri dei vari partiti comunisti sopravvissuti in Europa Occidentale”, ci dice, “arrivano per vedere come era vivere nel socialismo reale”.

L’impressione è proprio che sia il business della nostalgia la carta da giocare per incentivare il turismo nel Paese. All’osservatore occidentale, la Transnistria appare come un immenso parco giochi a tema post-sovietico, il set di un film di propaganda agit-prop degli anni ’30 dove tutto è rimasto intatto, integro, incontaminato. Davanti al Parlamento, che si chiama Soviet Supremo, si staglia una gigantesca statua di Lenin. La bandiera, unica al mondo, reca ancora falce e martello. Molti turisti vengono qui attratti dall’esotico, dal kitsch, dall’anacronistico di quello che resta del comunismo a quasi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino. Un’eredità non rinnegata, che potrebbe, paradossalmente, diventare una miniera d’oro.


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Tiraspol, capitale della Transnistra. Foto di Martina Napolitano, Marco Carlone e Simone Benazzo



Dmitri incarna bene quella generazione che ha accettato la sfida di aprirsi al mondo esterno e presentare una Transnistria diversa dagli stereotipi. La priorità? Emanciparsi dallo Stato, non dipendere dal corrotto e ipertrofico apparato burocratico. Per lui, quest’intenzioneè maturata in un decennio di attivismo a livello locale. “La nostra ONG era coinvolta nel processo di peace-building, lavoravamo per la piena riconciliazione tra gli abitanti di Transnistria e Moldavia”, racconta, “poi abbiamo compreso che qualcosa non andava: quando dipendi per il 95% da fondi esterni, non rispondi alla società che vuoi rappresentare, per cui sei convinto di lottare. Rispondi a chi ti finanza”, spiega Dmitri, giocherellando con il bicchiere semivuoto. “Quella fase, allora, per noi è terminata”, conclude. Secondo lui, questo conflitto congelatopuò essere risolto solo dalle entità statali: senza la volontà effettiva di Tiraspol, Chisinau e attori regionali, la società civile non ha alcuna possibilità di influenzare i processi di riconciliazione. Ma davvero il riconoscimento internazionale gioverebbe alla Transnistria? “No, tutt’altro. Finché non siamo economicamente autonomi, il riconoscimento sarebbe un suicidio”, risponde Dmitri.


Immagine inviata


Tiraspol, capitale della Transnistra. Foto di Martina Napolitano, Marco Carlone e Simone Benazzo



Le sue considerazioni riecheggiano riflessioni già emerse a livello accademico. Nonostante un refrain costante ripeta che “la Transnistria è indipendente de facto, ma non de iure”, sotto il profilo finanziario questa descrizione è molto distante dalla realtà. Il Paese, così com’è, non è sostenibile: Tiraspol è tenuta in piedi da Mosca. Come riportato da New Eastern Europe, nel 2014 circa il 93% del PIL transnistriano proveniva dal sostegno, diretto o indiretto, dei russi. Curiosamente, però, solo il 9% dell’export totale del paese era diretto in Russia, a fronte del 46% in Moldavia, e del 30% verso i paesi UE. Considerato un tale livello di compenetrazione, la Commissione Europea può permettersi di affermare che le economie di Transnistria e Moldavia sono sostanzialmente una sola. Dal primo gennaio 2016, Tiraspol è pertanto entrata a far parte della Dcfta (Deep and Comprehensive Free Trade Area) tra UE e Moldavia.

Quella di ratificare la Dcfta è stata una mossa a sorpresa, con cui l’ex presidente Yevgeny Shevchuk, che l’ha presentata come una propria vittoria diplomatica, l’anno scorso ha cercato invano la riconferma alle elezioni presidenziali. Per la piccola repubblica filo-russa, tuttavia, ha rappresentato la definitiva accettazione della dipendenza economica dal mercato Ue. Entrare nell’accordo di libero scambio con Bruxelles non significa soltanto vincolarsi a sviluppare l’imponente apparato giuridico-legislativo necessario per commerciare con i Paesi Ue, che prevede tra l’altro l’introduzione dell’Iva e di normative sul copyright. Ha anche una forte valenza geopolitica: equivale ad avvicinarsi all’Europa e, quindi anche al governo moldavo, che rappresenta l’unico interlocutore legittimo agli occhi della Commissione. Per tutti gli organismi europei, la riconciliazione tra Chisinau e Tiraspol non deve minacciare l’integrità territoriale della Moldavia. Nessuno spazio per una secessione, dunque. Nel primo trimestre dall’entrata in vigore dell’accordo, l’export della Transnistria verso i paesi UE era già quasi raddoppiato.

La Dcfta è considerata l’asso nella manica degli strateghi di Bruxelles. Non è un caso che, oltre alla Moldavia, questo tipo di accordo sia stato firmato anche da Ucraina e Georgia, a loro volta alle prese con conflitti separatisti. Questo modello di partnership commerciale incarna alla perfezione la tattica di engagement without recognition, già sperimentata con l’Abkazia, con la quale la Ue punta a riavvicinare le regioni ribelli al governo centrale, utilizzando gli incentivi economici come strumenti di soft power. Legando la Transnistria al proprio blocco politico-economico, le autorità UE intendono inoltre contrastare i fiorenti traffici illeciti (contrabbando di armi, in primis), spesso gestiti dall’onnipresente ed onnipotente compagnia Sheriff, che rendono questa striscia di terra un un hub criminale di primo piano.

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Compagnia Sheriff, Tiraspol, capitale della Transnistra. Foto di Martina Napolitano, Marco Carlone e Simone Benazzo


In breve, tramite la Dcfta Bruxelles, già impegnata sul territorio con la missione EUBAM, aspira a ribaltare quello che l’esperto Nico Popescu nel 2012 definiva “l’equilibrio di attrazione” tra Russia e UE, ovvero diventare l’attore principale del processo di riconciliazione. È evidente allora che Tiraspol non abbia potuto siglare l’accordo senza ottenere preventivamente il nulla osta di Mosca. Una concessione apparsa come l’ammissione implicita della necessità che la repubblica separatista cammini sulle proprie gambe, in un’ottica di graduale diminuzione degli aiuti economici russi. La riconciliazione, inoltre, sembra più vicina da fine dicembre, quando in Moldavia è stato eletto il filo-russo Igor Dodon. Il neo-presidente, oltre a confermare che nessuna soluzione verrà presa senza il consenso del Cremlino, ha proposto la federalizzazione del Paese. In un’eventuale federazione moldava la Transnistria godrebbe di uno status speciale, ma il Dnestr tornerebbe ad essere un semplice fiume, non più il confine tra l’Europa e l’ultimo lembo di terra sovietica.

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Soviet Supremo, Tiraspol, capitale della Transnistra. Foto di Martina Napolitano, Marco Carlone e Simone Benazzo





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